TORTONA Ospedale della Carità di Porta Santo Stefano poi Ospedale Maggiore - Ospedali d'Italia

Vai ai contenuti

Menu principale:

TORTONA Ospedale della Carità di Porta Santo Stefano poi Ospedale Maggiore

Ospedali Nord Ovest > Regione Piemonte > Alessandria provincia

Il contenuto della scheda è tratto integralmente da:  Enti ospedalieri a Tortona : secoli 12°-19° - Giuseppe Bonavoglia, Giuseppe Decarlini - Tortona : Società medico chirurgica tortonese, stampa 1995.
Ringrazio il Presidente della Società medico chirurgica tortonese per l’autorizzazione-condivisione all’utilizzo dei dati riportati

Compare nel 1211 per la prima volta nel testamento di Grosso di Castelletto. Questi, nella disposizione dei propri beni, lascia quattro stari di frumento all'anno perchè sia celebrata la data anniversaria della sua morte e precisamente destina due stari alla Cattedrale di Tortona e due stari all'ospedale della Carità.  Negli anni successivi si trovano numerose donazioni a favore dello stesso.  A Tortona, sotto il portico dell'ospedale della Carità, il 4 agosto 1277, frate Mussio, ministro dell'ospedale e cinque suoi confratelli, ricevono in restituzione da Giovanni Malalingua, diversi appezzamenti di terra, siti sul territorio di Sarezzano, in proprietà indivisa con la chiesa di San Guglielmo e che erano stati tenuti da suo nonno Alberto e da suo padre Pietro. La famiglia Malalingua corrispondeva all'ospedale della Carità ed a quello di San Guglielmo congiuntamente due moggia ed un mina di frumento.   Il 4 ottobre 1293 Tortona, stando nel chiostro dell'ospedale della Carità, il signor Giovanni Visconti, figlio del defunto Oddone, dona a frate Guglielmo di Assalito di Vho, ministro dell'ospedale della Carità, per lo stesso ospedale e per i poveri dello stesso ospedale che vi sono in quel momento e vi saranno in futuro, tre stari di frumento di fitto all'anno, in perpetuo.  Il 14 febbraio 1300, nelle case dell'ospedale della Carità, frate Enrico, divenuto ministro di tale ospedale col consenso e la presenza di cinque altri frati, investe una casa nel borgo di Tortona [...].  Nel 1332 dall'ospedale della Carità nasce per gemmazione l'Ospedale di Santa Margherita della Carità, poi ospedale di Santa Margherita. Nell'ospedale della Carità esiste la chiesa di Santa Margherita, nella quale il 24 maggio 1332 Giovanni Ferrari fu Rufino di Romagnano e sua moglie Giovannina Assalito, donano i loro beni «all'ospizio de' Poveri e casa dell'ospedale della Carità di Tortona» che è retto da frate Bertola Coferrato da Voghera. I due donatori entrano come confratello e consorella nell'ospedale, impegnandosi ad osservare la castità e le altre regole degli Ospedalieri.  Per gli enti ospedalieri tortonesi il Cinquecento è stato un secolo di grandi trasformazioni. Alcuni, come gli ospedali di S. Spirito (detto comunemente della Colombina) e di S. Lazzaro, cessarono la loro attività che aveva origini antichissime. Nuovi ne vennero istituiti (S. Ioannis pro Hispanis ed Hospitale peregrinorum presso la basilica minore di S. Maria di Loreto), altri si fusero in un unico ente come quelli di S. Antonio, di S. Margherita e di S. Simone.  La prima documentazione disponibile sull'argomento risale al 1523 ed è costituita dal catalogo delle chiese e dei benefici del clero redatto sotto l'episcopato di mons. Zazi.
Il documento evidenzia la presenza in Tortona di cinque ospedali:
- di S. Margherita (detto anche Maggiore o della Carità)
- dei Santi Antonio e Cristoforo
- dei Santi Simone e Giovanni Battista
- di S. Lazzaro
- della Colombina, priorato «dove si esercita l'ospitalità.

Il problema dell'unificazione degli enti ospedalieri era  già dibattuto nel 1560, ma, prima che essa fosse realizzata, doveva passare ancora qualche anno. Nel 1567 l'amministratore dell'ospedale di S. Simone, pareva intenzionato ad avviare lavori di restauro della sede dell'ente, avendo già acquistato «mille madoni novi e carra tre di sabia quali esso ministro dice haver fatto condur per redificar detto hospitale».
Di grande interesse quanto riferito sull'ospedale di S. Simone i cui beni erano stati parzialmente riservati in usufrutto all’amministratore dell'ente e parte destinati all'ospedale di S. Margherita con obbligo di «tener tre letti forniti per dar da dormire a poveri stropiati, vechi o viandanti di passaggio per una note sola o per due o tre se fossino stati tratenuti da pioggia o neve». In quegli anni però erano sorti gravi inconvenienti. Così continua infatti una memoria: «Si ha da sapere che di presente molti scrochi pretendono d'essere allogiati et fanno molte sporcitie e danni non tanto nelli lenzoli e coverte ma rompono li mattarazzi et ne cavano lana per servirsene a bruttissimo uso; onde si stenta a tenere detti letti in modo che non siano biasmati dubitandosi proceda da poca cura del custode il quale molte volte ha passato periculo di essere amazzato da simili forfanti et in ogni caso convien farvi alcuna provisione magiormente quando, sotto pretesto siano loro mogli, vogliono introdurvi mendiche e putane publiche et fare publico bordello di hospitale e loco pio.
Le spese de questi letti calculato le discortesie e danni predetti e computato il fitto della stanza loro et di quelle che si lasciano al detto custode senza fitto acciò assista a questi travagli, non lassi rubare i lenzoli, coverte e facci inbianchire detti lenzoli si può calculare almeno libre sessanta>>.
Sulla situazione ospedaliera della città nella seconda metà del Cinquecento offre un quadro particolareggiato la Cronaca anonima pubblicata da Ludovico Costa nel 1814:

«Vi sono cinque ospitali, di Santa Margarita de la caritade, fabrica noua et non ignobile cum luochi separati per huomini; vi è poi Santo Antonio, et lo hospital vechio a porta Santo Martino, che tuti due sono regullati dal primo como emergente da esso; vi è poi lo hospital di la gloriosa Vergine di Laureto, per Sacerdoti, Pelegrini, et poueri nobili che pur se sustene di elemosine sante; vi si agionge a questi lo hospitale de poueri di Cristo Giesù benedeto et glorioso hora ampliato per una eredità lasciatali dal Canonico Michel Bonanata, doue li poueri Orfaneli hano racorso et sono nudriti et alevati. Vi è ancho una Chiesa di honesta intrata al titulo di Santo Spirito, volgarmente chiamata la Colombina, per soccorso de prigionieri et conforto di quelli che per loro demeriti finiscono la loro vita per giusticia, al cui conforto era tenuto a confessione il beneficiato di essa Chiesa [...]>>.
In realtà l'ospedale della Colombina già nel 1576, come risulta dalla visita apostolica di mons. Ragazzoni, non praticava più la ospitalità, mentre l'assistenza ai condannati a morte sarebbe stata poi attuata dalla Confraternita della Misericordia con sede presso l'oratorio di San Rocco.
Nella cronaca troviamo citato quale novità l'ospedale degli orfani, comunemente conosciuto col titolo di San Giuseppe, istituito dal canonico Michele Bonanata e dal fratello Damiano che con atto del 18 settembre 1569 donavano terreno, immobile e rendite per l'orfanotrofio la cui amministrazione era legata a quella dell'Ospedale Maggiore.
Un altro documento è costituito dalla Descriptio ecclesiarum civitatis et dioecesis Dertonae pubblicata in appendice agli atti del Sinodo di mons. Maffeo Gambara tenutosi a Tortona il 21 aprile 1595. In detta tabella sono ricordati i seguenti ospedali:

Hospitale maius, sub titulo s. Margaritae
Hospitale s. Antonij
Hospitale s. Simonis
Hospitale Orphanorum in quo educuntur multi pueri miserabiles proprijs annuis proventibus dicti Hospitalis
Hospitale peregrinorum
Hospitale s. Joannis pro Hispanis.

Quest'ultimo doveva essere un centro per l'assistenza dei militari della piazzaforte e quindi completamente indipendente dalle autorità cittadine laiche o religiose.  L' hospitale peregrinorum era invece un semplice luogo di ristoro per i pellegrini che transitavano per Tortona, gestito e finanziato dalla confraternita della SS.ma Trinità, che  aveva sede nella basilica minore di Loreto, a brevissima distanza dalla sede dell'Ospedale Maggiore.
Con l'attuazione dei canoni tridentini più attento si fece il controllo ecclesiastico sugli enti ospedalieri.  Il 29 giugno del 1594 mons. Maffeo Gambara si recò in visita all'Ospedale Maggiore ricevuto dai “Regolatori”:
Tra gli ordini impartiti ricordiamo quello di elevare maggiormente dal suolo il «torno», cioè la ruota che serviva per accogliere gli «esposti», neonati abbandonati. Tale intervento si rendeva necessario «per cesar ogni pericolo d'animali che gli possono facilmente nuocere» e, intimò il Presule, «questo si facci subito».
Gli esposti venivano dati a balia in città o nel contado e successivamente, se non accolti in qualche famiglia, trasferiti all'orfanotrofio affinchè imparassero un mestiere e ricevessero un minimo di istruzione.
Mons. Gambara ordinò pure che i Regolatori rendessero conto della loro amministrazione ai successori, pena la scomunica, qualora contravvenissero a tale ordine.
Il Seicento, che ebbe un avvio decisamente favorevole con l'acquisizione di un'eredità favolosa, riservò in tempi successivi momenti di grandi difficoltà e tribolazioni. Nel 1630  anche Tortona venne investita dalla peste che durò un anno esatto, dall'agosto 1630 all'agosto 1631. Il provvedimento  fu quello di chiudere l'ospedale non accettando più ammalati e dimettendo i ricoverati «appena finite le loro purghe»>, preservando i documenti dell'archivio da possibili disordini.  Quasi a mitigare questi drastici provvedimenti, i suddetti Regolatori stabilirono che l'ospedale si facesse carico dell'assistenza medica per 12 ammalati ricoverati alle «cabanne», cioè al lazzaretto.
Sulla situazione ospedaliera negli anni precedenti la peste ci illumina una visita pastorale di mons. Arese del 29 maggio 1626,  visitò  le camerate: in quella degli uomini trovò otto letti disponibili e cinque degenti, in quella femminile quattro letti con una sola degente.  Ai responsabili dell'assistenza medica, «hospitaliere et hospitaliera» il Presule ordinò ogni cura nella distribuzione di cibo e medicinali secondo le prescrizioni del medico, non tralasciando di garantire l'assistenza spirituale, affidata ai padri somaschi della chiesa di S. Maria.
Passata la pestilenza, che, oltre ai danni demografici, provocò una paralisi nella vita amministrativa ed economica della città, gli eventi bellici degli anni successivi determinarono una crisi ben peggiore.  Si tratta dei due terribili assedi del 1642 e del 1643 che provocarono danni considerevoli all'edilizia cittadina e che per l'ospedale furono disastrosi.
Il 5 ottobre 1642 le truppe assedianti franco-piemontesi entrarono in città non mancando di saccheggiare i beni dell'ospedale - mobili e provviste - Il 7 febbraio dell'anno successivo le truppe spagnole tornarono ad impadronirsi della città.
L'ospedale era stato saccheggiato e occupato dalle truppe, gli affitti di terreni e cascine erano ormai diventati inesigibili, in quanto gli eserciti stranieri non avevano mancato di  guastare tutto il territorio circostante, impedendo agli agricoltori di seminare e raccogliere.
Nella riunione del 25 ottobre 1643 i Regolatori dell'ospedale decisero perciò di ridurre i salari del personale.  Nel 1647, tra tante difficoltà, l'ospedale fu costretto a consegnare tredici sacchi di grano per il sostentamento della truppa di stanza nel castello con gravi ripercussioni sui degenti.
Mons. Carlo Settala,  l'11 giugno 1668 si recò in visita all'Ospedale Maggiore. Il verbale redatto per l'occasione è fondamentale per conoscere il grave stato di crisi in cui versava l'ente benefico tortonese.
Le stanze dell'ospedale offrivano uno spettacolo ben squallido: quella grande, ove venivano ricoverati gli uomini, era completamente spoglia «e tutta fumicata senza telari alle fenestre. Fu ordinato - dice il documento - «che si sbiancasse tutta l'aula e si facessero telari alle fenestre per potervi ripiantare gli accennati letti, prohibendo detti sig.ri Regolatori d'introdurvi per l'avenire alcun aloggio de soldati fuori dell'occasione dell'hospitalità». Stessi ordini per l'aula «ove solgono stare le donne quale ora si è trovata piena di bigatti», cioè di bachi da seta.
Se la ripresa dell'attività assistenziale procedette quindi a rilento tra mille difficoltà, nel secolo successivo, almeno fino al passaggio del Tortonese sotto il dominio di Casa Savoia, dopo l'ultima guerra di successione (quella austriaca), la vita dell'ospedale fu disturbata sia dagli eventi bellici sia dal frequente transito di truppe.  È il 1754 l'anno per il quale possiamo dare un quadro completo dell'attività ospedaliera non solo della città, ma anche di tutta la provincia.  In tutta la provincia vi erano poi solo altri tre ospedali: a Pontecurone, a Castelnuovo Scrivia e a Serravalle.
Quello di Pontecurone aveva l'obbligo di mantenere quattro letti per ospitare pellegrini di passaggio. Quello di Castelnuovo doveva «provvedere tutto il bisognevole alli poveri infermi e convalescenti mantenendo d'ordinario sei letti». Dell'ospedale di Serravalle, sotto il titolo di S. Giuliano, non ho trovato riferimenti al tipo di attività.  Di pochi anni dopo, il 10 ottobre 1768, è la visita pastorale del Vescovo Mons. Luigi Andujar dalla cui relazione emerge una situazione non certo brillante, anche se i degenti affermarono di essere trattati con carità» e di avere dalla struttura ospedaliera quanto loro occorreva. Così almeno essi dissero, quando furono interrogati dal dottor fisico Vacchini in presenza del Vescovo.  Gli infermi erano sei, cinque uomini ed una donna. I letti erano sufficientemente puliti, ma i materassi erano sottilissimi. Gli ammalati non disponevano che di otto camicie. Le finestre avevano le impannate rotte e alla porta necessitava l'apposizione di una bussola per riparare i locali dall'aria fredda.  Gli orfani mantenuti nel S. Giuseppe al Lavello erano solo quattro. Dormivano due per ogni letto che era provvisto di un pagliericcio.
La visita del Presule dovette essere di sprone a migliorare le cose perchè, pochi giorni dopo, tra il 24 e il 30 ottobre, il sacerdote Giovanni Battista Ribrocchi, delegato dall'Amministrazione cittadina, ispezionò ospedale e orfanotrofio redigendo una preziosa relazione che ci offre ulteriori informazioni.
Da questa emerge quanto segue:  1. i degenti non avevano espresso alcuna lamentela circa il trattamento loro riservato. Il vitto è confacente, le visite dei medici, del chirurgo e del sacerdote (direttore spirituale) avvenivano due volte al giorno;  2. il letto dell'infermiere doveva essere spostato, affinchè potesse udire facilmente eventuali chiamate dei degenti;  3. nell'infermeria delle donne occorreva approntare una tela foderata che coprisse la porta, per proteggere il locale dal freddo;  4. lo spazio riservato alle donne era angusto. Inoltre era necessario che i letti fossero provvisti di tende;  5. occorreva predisporre la ruota per accogliere i neonati abbandonati. Attualmente venivano deposti a terra con  grave pericolo per la loro incolumità;  6. era necessario che ogni letto avesse un cartello su cui era riportato un numero romano, che il medico e il chirurgo dovevano riportare sul libro delle ricette e lo speziale sulla caraffa e sui medicinali, al fine di evitare errori nella distribuzione delle pozioni curative.
Alla Congregazione di carità spettava l'amministrazione di tutti i beni e le rendite delle opere pie esistenti in città per il soccorso e il mantenimento dei poveri tanto sani che infermi. Essa era composta da dodici membri.
Il Settecento non si concluse bene per l'ospedale tortonese che venne, suo malgrado, coinvolto nella burrasca  politica provocata dall'irrompere delle armate napoleoniche che portarono in Italia il vento della rivoluzione francese.
Del periodo della dominazione francese è stato trovato nell'archivio comunale anche un interessante manifesto a firma del Commissaire des Guerres Lequeulx, nel quale venivano riportati nove articoli relativi alla Consigne pour les portiers des hospices de Tortone. Con uno stile militare venivano impartite precise disposizioni per l'ammissione dei malati e stabiliti il divieto per gli stessi di allontanarsi senza il permesso dell'Ufficiale di sanità, il divieto di introdurre alimenti, per cui i visitatori dovevano essere assoggettati a scrupolosi controlli da parte del custode ed il divieto agli infermieri di allontanarsi senza il permesso dell'economo. Qualora avessero incontrato difficoltà nel far rispettare la consigne, les portiers potevano chiamare in aiuto l'Officer ou le sous Officer de garde qui serà tenu de leur prêter main forte.
Con editto del 21 maggio 1814, a Tortona veniva ripristinata la dominazione sabauda. La Restaurazione portò alla ricostituzione, con regio decreto del 30 dicembre 1814, della Congregazione di Carità secondo i dettami dell'antica legislazione e alla successiva creazione, nel 1819, di una Congregazione Provinciale di Carità (Tortona era tornata ad essere sede provinciale) composta da venti consiglieri .  Detto organismo provinciale nominò al suo interno la sezione locale destinata ad amministrare l'ospedale e le opere pie cittadine.
Intorno a quegli anni l'ospedale aveva 14 letti (9 per gli uomini e 5 per le donne) ai quali si potevano aggiungere «due letti volanti in un gabinetto per le partorienti. Tra il 1822 e il 1823 il canonico Francesco Antonio Priora lo fece ingrandire e nel 1831 l'ospedale di Tortona giunse a disporre di 10 letti per gli uomini e di 9 per le donne.  Al 31 dicembre 1828 gli esposti assistiti dall'ospedale erano 69 bambini e 74 bambine, mentre al 1° gennaio 1834 gli assistiti erano 180, quelli consegnati nell'anno erano stati 24, mentre quelli collocati o deceduti erano 26.
Una memoria non datata, ma risalente probabilmente all'anno 1820, ci segnala la richiesta fatta dalla Congregazione di Carità per ottenere l'immobile detto della Salvaterra attiguo al fabbricato dell'ospedale, al fine di disporre di nuove stanze per i malati contagiosi, i pazzi e per sistemare la biancheria.  Una relazione del 1832 offre abbondante documentazione circa il funzionamento dell'ospedale cittadino nella prima metà dell'Ottocento.  I letti esistenti per gli ammalati erano complessivamente 24, di cui tre con cortine, 19 di ferro e 2 di legno, tutti comunque con pagliericcio, materasso, capezzale e guanciale in buono stato. Le lenzuola disponibili erano complessivamente 233, le coperte in buono stato 22, molto usate 26, nuove 6; le coperte di tela rigata bianca e blu 24, usate 30; federe di guanciali 50; camicie da uomo 16, da donna 14.
L’impossibilità di accesso al fondo, a motivo di un suo trasferimento e riordino, pone termine a questa ricerca che non può più alimentarsi dagli archivi ecclesiastici e civili cittadini a motivo della frammentarietà della documentazione ivi conservata.



 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
Torna ai contenuti | Torna al menu