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GEMONA Ospedale Beata Vergine della natività

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Nel mio lavoro di ricerca ho trovato il PDF della Tesi  di dottorato di ricerca “Storia di Gemona nel Basso medioevo” del Dott. Enrico Miniati Anno accademico 2012-13.
Non è stato semplice rintracciare il Dott. Miniati ma la perseveranza premia. Contattato si è reso pron-tamente disponibile nel concedermi l’autorizzazione ad utilizzare le parti di mio interesse. E’ sempre difficile però il dover riassumere in poche righe un lavoro minuzioso, ricco di riferimenti e annotazioni bibliografiche,  frutto di un lungo lavoro di ricerca. Mi sono limitato, come per tutte  le altre schede, nel riportare i punti più salienti (a mio parere) ma se chi mi legge volesse saperne di più può trovare il tutto nel volume da lui pubblicato: Gemona nel Basso medioevo - Società Filologica Friulana - Collana: Genti e luoghi del Friuli , Nr. 3 - 2020

Nei primi mesi del 1491 il Consiglio Maggiore della Comunità di Gemona si riunì più volte per discutere sulla situazione assistenziale e sanitaria in città. Tra le varie questioni trattate dall’organo istituzionale, il dibattito si soffermò soprattutto attorno all’attività e al servizio svolto dall’ospedale della Beata Vergine della Natività, una struttura che era stata attivata nell’abitato da poco tempo. Questo istituto assistenziale era infatti nato solo tre anni prima, per volontà di Caterina Dentoni vedova di Biagio Pinta, la quale nel 1479, facendo testamento, aveva destinato una cospicua somma di denaro e alcuni beni immobili a favore della realizzazione in città di un convento o di un ente ospedaliero. Dopo un intenso e prolungato dibattito avvenuto dopo la morte di Caterina e grazie all’intervento di un visitatore apostolico nel 1488, il lascito testamentario fu utilizzato per avviare un ospedale, il quale venne immediatamente organizzato sotto la direzione di un priore. La struttura fu istituita all’interno della cinta muraria in una casa situata nel centro cittadino.
Il più importante problema che era stato sollevato in consiglio comunale e che aveva acceso la discussione sulla situazione ospedaliera, era tutto incentrato sull’effettiva utilità di questo Istituto in città. Il livello qualitativo dell’assistenza offerta dall’ospedale della Beata Vergine della Natività e l’organizzazione delle attività caritatevoli promosse a favore di poveri ed indigenti, appariva infatti a molti cittadini modesto e decisamente di basso profilo, soprattutto se comparato a quello dispensato dagli altri enti ospedalieri operanti nel distretto. In regione, Gemona poteva infatti vantare una tradizione e una qualità assistenziale sia sotto l’aspetto sociale che sotto quello sanitario decisamente elevata, mentre l’ospedale della Beata Vergine della Natività offriva solo un semplice aiuto ad indigenti e bisognosi che andava banalmente a sovrapporsi all’azione ormai consolidata nei secoli dagli altri nosocomi cittadini. Già a partire dal secolo XIII erano infatti attivi nel distretto gemonese due importanti ospedali (oltre ad altri enti minori che dispensavano opere caritatevoli): il primo, San Michele sorgeva nel centro abitato mentre l’altro, S. Spirito, era situato nei pressi del luogo conosciuto oggi come Ospedaletto . Nel corso del secolo XV venne poi fondato all’interno del perimetro murato un terzo istituto assistenziale, conosciuto come San Giovanni, il quale, nonostante fosse più piccolo degli altri due, aveva anch’esso attivato importanti interventi di aiuto rivolti a malati e indigenti. Da quasi tre secoli gli abitanti del distretto ed i viaggiatori in transito a Gemona potevano quindi usufruire dell’assistenza messa loro a disposizione dalle prime due strutture ospedaliere, le quali, nel Quattrocento,  erano economicamente solide e con un’antica tradizione alle spalle. Inoltre dalla prima metà del secolo XIII il Comune stipendiava ogni anno uno o più medici, che erano a disposizione dei cittadini meno abbienti e spesso collaboravano con il maggiore ospedale della città, quello di San Michele. L’istituto della Beata Vergine della Natività non offriva quindi nulla di nuovo. Il problema che stava emergendo in città nei primi mesi del 1491 era legato alla concorrenza che questo nuovo ente poteva mettere in atto nei confronti delle altre strutture esistenti, con azioni di drenaggio di risorse economiche (donazioni) ed energie umane. Era prevedibile che gli amministratori gemonesi, di fronte a questa nuova e spontanea fondazione, volessero evitare una inutile moltiplicazione delle strutture ospedaliere in città, privilegiando invece una linea d’azione che favoriva la concentrazione dell’assistenza in pochi ed efficienti luoghi. La dispersione e la frammentazione dei poli assistenziali venne quindi considerata dannosa, in quanto parcellizzava le risorse a disposizione di queste strutture che in un secolo come il XV, caratterizzato soprattutto nella prima metà da ripetute crisi epidemiche di peste, non erano mai sufficienti. Le autorità pubbliche, dopo aver valutato con attenzione la questione, decisero quindi che non esistevano i presupposti per l’attività di un nuovo ospedale in città, in quanto, come si legge nella delibera comunale riferita a questo problema, “in ipsa civitate Glemonae plura Hospitalia et pia loca habentur”. Non molto tempo dopo questa decisione gli amministratori del Comune, in accordo con la dirigenza del neofondato ospedale, confermarono la soppressione dell’ente, impiegando, secondo le volontà testamentarie della Dentoni, le donazioni ed i lasciti concessi nella realizzazione di un convento, il quale fu edificato in breve tempo e rimase attivo fino al 1768.
Alla fine del Quattrocento le autorità pubbliche, come dimostra la vicenda della Beata Vergine della Natività, seguivano dunque con particolare interesse tutte le questioni che riguardavano le attività socio-sanitarie che venivano messe in atto in città, spingendosi fino a favorire la soppressione di un ente che consideravano inutile. A partire dalla prima metà del secolo XV l’amministrazione comunale era infatti riuscita ad inserirsi all’interno dei due principali enti ospedalieri gemonesi (S. Michele e S. Spirito), i quali, anche se continuavano ad essere formalmente amministrati da istituti confraternali indipendenti e nel secondo caso affiliati anche ad ordini di fama internazionale – S. Spirito era una filiazione dell’ordine di S. Spirito in Sassia –, erano di fatto soggetti alle direttive dei consigli cittadini, i quali collocavano sistematicamente anno dopo anno ai vertici di queste strutture uomini di fiducia. In una delibera consiliare del 29 settembre 1437 gli amministratori comunali erano infatti riusciti a ottenere il diritto a nominare i quattro provededors dell’ospedale di S. Michele, cioè i consiglieri ed i più stretti collaboratori del Camerario (il governatore dell’ente). Quasi contemporaneamente a questa forma di intromissione all’interno dei vertici dell’ospedale di S. Michele, il Comune, sfruttando una situazione di disordine e instabilità cronicamente presente da alcuni decenni nella gestione dell’ospedale di S. Spirito, riuscì ad avere il privilegio di eleggere il priore dell’ente, cioè la figura istituzionale che si trovava al vertice della struttura. Fino a questo momento il priore era infatti eletto a Roma, essendo questo nosocomio aggregato, come già detto, all’ordine di S. Spirito in Sassia. Alla fine del secolo XV le autorità comunali avevano dunque voluto evitare delle forme di concorrenza e sovrapposizione di competenze, delegando l’assistenza socio-sanitaria in città esclusivamente agli enti dove la gestione era quanto meno controllata. Questo atteggiamento aveva quindi discriminato un istituto i cui vertici erano completamente scollegati con le istituzioni comunali. Questa forma di ingerenza e di controllo sugli ospedali cittadini – che non deve essere vista in una prospettiva negativa – era maturata in un momento particolarmente delicato per la città, sia sotto l’aspetto sanitario che sotto quello assistenziale. In tutta la regione tra la fine del secolo XIV e gli inizi del XV l’incremento demico che aveva caratterizzato i secoli precedenti, ed aveva superato senza gravi traumi la peste del 1348-1350, sembra infatti esaurirsi. Anzi si notano evidenti sintomi di una rapida inversione di tendenza. Una delle principali ragioni della riduzione del peso demografico può essere ravvisata in una serie di pesanti crisi epidemiche che, a ritmo ravvicinato, interessarono i principali centri regionali, tra cui anche Gemona. La città dopo alcune iniziali epidemie intorno alla metà secolo XIV, fu infatti investita da altre pestilenze verso la fine del Trecento e soprattutto nella prima metà del Quattrocento. All’interno dei registri contabili della chiesa plebanale di Santa Maria, ad esempio, il Camerario nell’agosto del 1437 annotava:” Spendey solç X per lis colaçions fatis a li trey prozesions per lu timp de pestilencia” e ancora “ Item spendey (…) per far fare le foram delle sepolture al tempo della pestilencia che era di bisogno soldi sessanta ”.
Sembra che i focolai d’infezione rimasero attivi per più anni in città, fino a riesplodere in maniera impetuosa nel 1446 e nel 1449. Le autorità veneziane già nel 1445 decisero di predisporre una casa come lazzaretto temporaneo per evitare il propagarsi del morbo, ma senza successo. Solo nel 1487 – quando paradossalmente si verificò un parziale rallentamento delle crisi epidemiche – annesso alla chiesa campestre di S. Biagio in palude, a circa un chilometro dal centro di Gemona, fu attivato un lazzaretto, il quale fu organizzato all’interno di un edificio che in origine ospitava un monastero di monache benedettine. Negli anni in cui le infezioni di peste minacciavano più intensamente la Comunità, Gemona dovette anche convivere con alterni periodi di contrazione dei commerci e di conseguente instabilità economica, la quale era in gran parte il frutto delle azioni armate conseguenti alla conquista veneziana dello stato patriarchino. Oltre all’emergenza sanitaria la città fu infatti costretta ad affrontare anche un problema di carattere sociale, il quale ruotava sostanzialmente attorno ad un abbassamento dei livelli di vita con un aumento delle forme di indigenza che coinvolgevano non solo le categorie tradizionalmente esposte (vedove e orfani), ma anche i gruppi sociali di artigiani e piccoli commercianti che normalmente riuscivano a mantenersi sopra il livello di povertà. Il Comune, a fronte di questa situazione, volle probabilmente intervenire con forza all’interno delle strutture ospedaliere cittadine, per affrontare al meglio il momento di crisi e per gestire direttamente il gran numero di risorse economiche sia pubbliche che private legate a questi istituti. Gli ospedali gemonesi controllavano ricchezze ingenti, amministrando proprietà terriere, rendite, edifici e derrate alimentari, le quali venivano utilizzate per fronteggiare le forme di indigenza e di disagio, relegando in secondo piano le offerte di cure specificatamente sanitarie. Le forme di assistenza proposte erano infatti fondamentali per gli equilibri sociali in città, in quanto avevano un forte impatto sulla popolazione contenendo la povertà e le forme di disagio. Quasi tutti gli ospedali in regione, come anche quelli attivi a Gemona, erano dunque caratterizzati da un’offerta assistenziale che aveva caratteristiche diversificate e di ampio respiro, non giungendo mai in età medievale a nessun tipo di specializzazione. I servizi offerti non privilegiavano necessariamente l’aspetto sanitario, ma venivano incontro soprattutto a bisogni di carattere prevalentemente sociale. Solo a partire dal secolo XVI alcuni istituti favorirono l’aspetto legato alle cure mediche diventando dei veri e propri ospedali in senso moderno, cioè luoghi destinati principalmente all’assistenza degli ammalati. In linea generale l’attività degli ospedali gemonesi manteneva ancora nel secolo XV un forte ancoraggio polifunzionale, in quanto, oltre a fornire aiuto ed ospitalità a pellegrini ed infermi, queste strutture accoglievano, crescevano e creavano un avvenire a bambini abbandonati, elargivano elemosine, distribuivano cibo e pasti, ospitavano vecchi e minorati fisici e fornivano una generica assistenza anche di natura economica.


 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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