CASOLA VALSENIO Ospedale S. Antonio Abate - Ospedali d'Italia

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CASOLA VALSENIO Ospedale S. Antonio Abate

Ospedali Nord est > Regione Emilia Romagna > Provincia Ravenna

Questa scheda è stata resa possibile dall'interessamento del Sindaco di Casola Valsenio che ha interpellato lo storico locale Roberto Rinaldi Ceroni;
Molto felice della nostra iniziativa ci ha inviato un paio di "file" estrapolati dal suo testo "Fra miseria e carità" che tratta la storia dell'Opera Pia di Casola Valsenio proprietaria dell'omonimo Ospedale.
Per ora ci ha deliziato della storia antica ma siamo in attesa di un suo ulteriore contributo per la storia fino agli anni 60.


GLI ANTICHI OSPEDALI

Nella valle del Senio, a sud della Via Emilia, esistevano in epoca medievale una trentina circa di ospedali di cui sette nel comune di Casola Valsenio. Intitolati tutti a Santi, il più ricorrente fra i quali era S.Antonio che ne annoverava ben nove, erano strutture che avevano ben poca attinenza con il significato che oggi noi attribuiamo alla parola.
Gli ospedali casolani censiti da Padre Serafino Gaddoni, oltre a quello del paese, erano: S.Antonio di S. Rufillo, S.Antonio di Renzuno, Santi Filippo e Giacomo di Baffadi, Ospedale di Pedreto in Sintria, Ospedale di S. Andrea, Ospedale di Mercatale o di Castelpagano.
Le testimonianze più antiche risalgono tutte all’inizio del ‘400 tranne per quello di Baffadi di cui risulta l’atto costitutivo del 1293, conservato presso l’archivio Sassatelli a Imola.
Nati nell’alveo della profonda spiritualità cristiana che imperniava nella “charitas” una delle virtù principali dell’etica, già i primi concili stabiliscono per i vescovi l’obbligo della cura e dell’assistenza ai poveri. Merita qui riportare integralmente un passo tratto da “Dieci secoli di storia ospitaliera” di Nazario Galassi che ci rende il contesto storico della genesi di queste strutture. “Nell’opera esplicata dai grandi vescovi dell’ultima età romana, Ambrogio, Massimo di Torino, Pietro Grisologo di Ravenna, l’hospitalitas si precisa come attuazione della tritio, cioè della larga azione protettiva della Chiesa sul popolo a lei affidato. La prima menzione ufficiale di istituzioni ospitaliere designate col termine xenodochia, si ebbe nel Concilio di Nicea, il cui canone LXX stabilì che ogni città dovesse almeno un ricovero per pellegrini e infermi, in luogo separato e custodito da un monaco.. Non tragga in inganno il significato etimologico di ospizi per pellegrini, che pare voglia escludere il ricovero di malati, quando invece sin dall’inizio questa finalità appare precipua. Se, infatti, molti xenodochia si configurano secondo la funzione assunta nell’alto Medioevo, durante il periodo dei grandi pellegrinaggi, nella tarda età romana appaiono piuttosto come luoghi di totale spedalità. Del resto gli stessi pellegrini erano spesso malati che abbisognavano, oltre che di riposo e di cibo, di quelle cure empiriche che per lo più si riducevano all’isolamento, al riposo e alla somministrazione di alimenti.
Va, inoltre, osservato che le peregrinationes non incominciano con le crociate né sempre stanno a significare i lunghi viaggi verso Roma o i luoghi santi. Il termine nasce per indicare un fenomeno pubblico conseguente alle frequenti scorrerie barbariche della prima metà del V secolo. Non tutti gli abitanti di una città erano in grado di affrontarle, molti se ne andavano, peregrinando da una città all’altra, in attesa che la scorreria passasse, poiché solo le civitates difese dalle mura, dove appunto si poteva trovare protezione e provvidenze assistenziali, davano quella sicurezza venuta a mancare nei pagi e nei vici indifesi.”
Fu poi Giustiniano a disciplinare la materia con alcune norme che rimarranno per secoli il cardine entro cui si preciserà l’attività ospedaliera. Prima di tutto all’ospedale è attribuito lo status di soggetto di diritto pubblico, cioè con una propria personalità giuridica riconosciuta dall’autorità civile e politica. Si fa obbligo dell’esecuzione della volontà testamentaria anche agli eredi con licenza ai vescovi di poter chiamare a giudizio i renitenti o i contravventori. Si pongono delle precise limitazioni all’attività degli amministratori: il divieto di impiegare le sopravvenienze attive se non per acquisto d’altro patrimonio, l’obbligo di dare conto della propria attività a quelli entranti e il divieto dell’alienazione di beni e ipoteche non utili agli scopi dell’ente.
Anche i nostri ospedali nascono tutti con lo scopo di offrire alloggio ai poveri infermi e ai pellegrini. Inoltre, per quello di Mercatale, di Pedreto, di Baffadi e di Casola si aggiunge l’obbligo di accogliere gli esposti per trasportarli poi in quello di Imola, diocesi da cui tutti dipendono. La loro capienza era minima. Oltre alla stanza dello spedalingo v’era un’altra stanza per l’accoglienza dove era collocato un solo letto.
Nella maggior parte dei casi l’atto di donazione proviene da un nobile senza figli che lascia in eredità alcuni beni vincolandoli all’attività ospedaliera. Tranne quello di Casola e quello di Baffadi gli altri scomparvero tutti in capo a qualche secolo. Uno degli ultimi fu quello di S.Antonio di San Rufillo la cui attività cessò a metà del ‘700.
Nonostante la protezione giuridica di cui godevano, gli ospedali, per il consistente patrimonio che gestivano, furono spesso oggetto anche in epoca antica di tentativi di espropriazione.
Padre Serafino Gaddoni descrive in proposito quello che successe a quello di Renzuno. “I priori dell’ospedale venivano eletti dagli uomini di S. Margherita di Stifonte, ma costoro non seppero salvaguardare il patronato e i beni dell’ospedale medesimo. Gente umile e modesta, affidava l’amministrazione ai maggiorenti della parrocchia, fra i quali primeggiavano i Ceronesi, stirpe fiera e di animo non sempre delicato, i quali nella prima metà del sec. XVI finirono coll’impossessarsi dei beni e convertirono l’ospedale e l’oratorio a uso di stalla. Infatti, nella visita pastorale del 1571 non furono trovati che un S. Antonio ed alcune altre figure dipinte nel muro entro una stalla. Don Sforzino, rettore di Stifonte, nel 1574 informa il visitatore apostolico sulle vicende dell’ospedale e di una vertenza su tale argomento discussa nella Curia Vescovile d’Imola. Il processo risulta avvenuto negli anni 1566-1567; ….Brunorio di Ceruno e suo fratello Giacomo, proprietario di Renzuno, si erano impossessati dello stabile e dei terreni dell’ospedale. Tutte le testimonianze sono contro di loro: i coloni stessi protestarono di non volere più coltivare le terre di spettanza dell’ospedale, essendo cosa sacra, usurpata, per non attirarsi sul loro capo la maledizione di Dio”. Nel 1571, Brunorio, oramai avanti in età e forse per farsi perdonare le prepotenze, lasciò in testamento all’ospedale di Casola un qualche bene di cui però non abbiamo notizia più precisa, con l’obbligo di distribuire il pane alle famiglie povere della parrocchia di Settefonti, cosa che sarà adempiuta fino alla fine del ‘700.

La storia antica
Sulla storia antica dell’ospedale riportiamo quanto scrisse padre Serafino Gaddoni nel suo libro “ le chiese della diocesi d’Imola” del 1927.
“Esisteva presso la chiesa di S.Lucia-l’attuale Suffragio- e confinava con la medesima dal lato di mezzogiorno. Dalla sua fondazione al finire del secolo XVI circa si trova intitolato a S. Lucia; poi a S. Antonio abate. La prima memoria che abbiamo dell’ospedale è del 1391. Otto anni dopo troviamo un insigne benefattore, certo Nuccio da Casola, che lo nomina erede di tutte le sue sostanze. Nel 1408 l’ospedale entra in possesso di vari terreni lasciati da Nanne da Casola. Aveva lo scopo di: a) aiutare e ricoverare i poveri infermi, b)ospitare i pellegrini, c)dotare le fanciulle povere e distribuire il pane d’inverno ed in tempo di carestia ai bisognosi. Nel 1614 e in seguito esso aveva anche l’obbligo di ricevere gli esposti, allo scopo di trasportarli nell’ospedale di S. Maria della Scaletta in Imola e di provvedere loro il necessario nutrimento”.
Non conosciamo con esattezza la data della sua fondazione. A metà dell’ottocento, in diversi documenti ufficiali, la si fa risalire al 1225 ma senza attestarne la fonte. Incrociando i dati in nostro possesso e quelli raccolti dal Galassi nel suo libro sulla storia dell’ente ospedaliero di Imola ,possiamo tuttavia ipotizzare che la fondazione dell’ospedale di Casola possa risalire alla seconda metà del 1200, di poco anteriore a quella dell’ospedale di Baffadi del quale abbiamo invece la precisa data di nascita, il 1293, da un documento dell’archivio Sassatelli.
Le attività svolte inizialmente riguardarono l’accoglienza dei pellegrini, che si recavano a Roma attraversando l’Appennino anche nelle sue vallate minori, e quella degli infermi in situazioni di povertà. La distribuzione del pane la si faceva sotto Natale e Pasqua. Dal 1571 sarà allargata anche alle famiglie bisognose della parrocchia di Settefonti in obbedienza al testamento di Brunoro Ceroni.
In seguito, ma non sappiamo di preciso da quando, l’ospedale cominciò a dispensare dei sussidi in moneta, in funzione di dote, alle giovani donne in condizioni miserevoli che erano in procinto di sposarsi.
Per quanto riguarda gli esposti, quelli che noi oggi chiameremmo i trovatelli, i figli di NN, erano abbandonati sulla ruota o sulla soglia del portone dell’ospedale.
La creatura veniva appoggiata sulla ruota o sulla soglia della porta e ad una scampanellata l’ospitaliere girava la ruota o si affacciava ad accogliere il trovatello. La prima volta che si parla degli esposti è in una bolla di Papa Sisto IV nel 1486 in relazione all’obbligo di accoglienza che aveva l’ospedale d’Imola verso quelli del territorio imolese. Una succinta nota sul proseguo di questa vicenda è contenuta in una minuta di fine ‘800 conservata presso l’archivio comunale di Riolo Terme: “Senonchè anche gli altri comuni della diocesi impresero a mandare di nascosto i loro esposti allo spedale di Imola e fra gli altri lo spedale di Lugo che, pure avendo obbligo e sostanza propria per ricevere quelli del proprio territorio, pagava uno scudo a chiunque riuscisse a portare furtivamente in Imola un bambino...Per tale abusivo e fraudolente concorso, crescendo a dismisura il numero dei trovatelli, i rettori dello Spedale Imolese ricorsero ai vescovi, perché si ponesse freno e furono anche comminate pene compreso il carcere ai portatori dei bastardini. Ma riuscendo tuttavia insufficiente a frenare l’abuso, né d’altra parte volendo i vescovi ricorrere a più gravi rigori, forse per tema di accrescere i patimenti e provocare la morte di quelle misere creature, preferirono imporre contribuzioni agli spedali delle terre e paesi che fraudolentemente introducevano allo spedale di Imola i loro bastardi. D’onde si venne in seguito a varie convenzioni relative alla misura delle contribuzioni dei vari spedali e comuni, convenzioni che riuscirono tutte dannose allo spedale di Imola e che furono sciolte da Pio VII con un suo decreto nel 1822. (Nel 1671 il vescovo Donghi ridusse della metà l’importo dovuto dall’ospedale di Casola perché ritenuto troppo povero di mezzi). Però tale decreto venne indi a poco modificato da Leone XII in modo dannoso per lo spedale imolese con altro decreto 1 ottobre 1826...Quindi altre nuove questioni portarono alla convenzione malaugurata del 16 marzo 1838 la quale recita: lo spedale di Imola è obbligato in perpetuo a ricevere gli esposti di tutta la diocesi.”
Prima della legge 20 marzo 1865 che poneva a carico dei Comuni e delle Province il loro mantenimento, gli esposti di Casola, una volta trasportati a Imola a spese del nostro Ospedale, erano mantenuti dall’Ospedale di S.Maria della Scaletta.Una volta cresciuti venivano dati in affidamento alle famiglie che ne facevano richiesta o si mandavano a servire nelle case dei benestanti le femmine e in campagna i maschi, dall’età di otto anni.
Questi affidi erano in prova per il primo anno: il giorno del Corpus Domini si passavano in rassegna tutti i casi e laddove erano sorti problemi, si cambiava la famiglia.
Nel corso dei secoli questo tipo di collocazione, che è relativa a tutto il ‘500, subì le evoluzioni del costume nel tentativo comunque sempre di conciliare da una parte la tutela degli esposti (legittimandoli con le adozioni, mandandoli a lavorare o, per le bambine, mettendole in convento) e dall’altra le risorse economiche dell’ente considerando che in certi periodi si arrivava a dover mantenere anche più di cento bambini contemporaneamente.
Ma torniamo alle pagine del Gaddoni: “L’ospedale era retto da una società di pie persone, sotto la protezione della Madonna. Società che non solo aveva la cura dell’ospedale, ma ancora quella del Ponte di Casola (oggi della Soglia) come risulta da memorie rintracciate degli anni 1408,1472,1490,1492,1538,1559.1637, ecc. Seguiva l’esempio della società di S. Maria della Scaletta in Imola nella chiesa dei Padri Predicatori o Domenicani, la quale oltre il regime dell’ospedale di S. Maria della Scaletta, aveva pure il governo del ponte sul Santerno. Anzi, la società di S. Maria di Casola è a ritenersi un’emanazione della consorella d’Imola, la quale sul finire del XIII aveva già estesa la propria influenza nella vallata del Senio, avendo alle proprie dipendenze l’ospedale dei Ss Giacomo e Filippo di Baffadi. A provare il nostro asserto s’aggiunga il fatto d’avere la società di Casola chiamato i frati Predicatori o di S. Domenico ad ufficiare la chiesa di S. Lucia circa il 1522.In detto anno appunto l’ospedale era stato rovinato ed i suoi beni depredati dai Vaini e loro aderenti, in lotta contro i Sassatelli”
Nel 1539 gli uomini della società di S. Maria di Casola cedettero all’ordine dei Domenicani i loro beni mobili e immobili censiti nelle terre di Monte Battaglia, Castel Pagano, Monte Oliveto (L’odierno Castelvecchio, di fronte alla chiesa di Valsenio), Torranello e altrove con l’obbligo di mantenere il Ponte sia in caso di calamità naturali che per incuria degli uomini.
Abbiamo modo di pensare che il vero intento della Società, che col vincolo del ponte manteneva comunque fede al proprio impegno statutario, era in realtà quello di portare a Casola qualcuno che si occupasse dell’istruzione dei giovani, ovviamente della classe abbiente.
“ Seguitano varie convenzioni negli anni 1538,1544,1546, ecc. tra la società o congregazione dell’ospedale e gli stessi frati Domenicani in ordine al loro sostentamento, ai locali da abitare, ai locali adibiti all’ospitalità degli ammalati e dei pellegrini ed all’ufficiatuta della chiesa e delle cappelle di S. Maria e S. Lucia. Ai frati erano stati concessi vari terreni dell’ospedale; ma i vescovi nelle loro visite pastorali insistono perché siano recuperati e si originano così non poche liti e divergenze. Il 7 novembre 1582 sono promulgati i nuovi statuti dell’ospedale e fatte le nuove elezioni degli ufficiali. Forse fu in quest’occasione che si deliberò d’intitolare l’ospedale a S. Antonio abate a fine di meglio distinguerlo dalla chiesa di S. Lucia, ufficiata dai Domenicani”.

Se l’intitolazione a S. Lucia possiamo arguirla perché legata al culto della Santa nella venerata chiesa, l’invocazione a S. Antonio abate dobbiamo attribuirla ad un affetto profondo che tale santo ha sempre ricevuto nella nostra gente prima come patrono dei malati, poi, impropriamente, come protettore degli animali.
Nell’iconografia medievale Sant’Antonio, monaco vissuto in Alessandria Egitto fra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo, era inizialmente rappresentato come un eremita dalla barba bianca vestito di una lunga tunica, recante sulla mano sinistra una fiamma viva, nella destra un pastorale e ai suoi piedi un maiale.
Il bastone rappresentava la sua scelta monastica, la fiamma e il maiale erano collegati alle sue facoltà di guarire dal cosiddetto fuoco di S.Antonio.
“ A tutti è noto il fuoco sacro o fuoco di S.Antonio, manifestazione talora molto dolorosa di un fatto infiammatorio di origine virale, che colpisce un nervo, in particolare uno dei nervi intercostali, con presenza sulla cute, lungo il percorso del nervo colpito, di caratteristiche vescicole, simili come forma a quelle della varicella. A questa malattia, il cui nome scientifico è herpes zoster, è stato assegnato il nome di fuoco di S.Antonio, per l’intensità dei disturbi
Si tratta tuttavia di una denominazione secondaria nel tempo, perché tale appellativo era originariamente dedicato ad un’altra malattia, presente nei secoli scorsi un po' ovunque e oggi praticamente scomparsa.
Un fungo, Claviceps Purpurea, parassitando la segala, produce sulle spighe la formazione di corpicciuoli (gli sclerozi fungini) di aspetto allungato e leggermente ricurvo, che hanno fatto dare alla pianta così alterata il nome di segala cornuta. Con la macinazione del cereale parassitato passa nella farina una sostanza molto tossica, un alcaloide denominato ergotina. L’uso di questa farina per la confezione del pane provoca nei consumatori una grave forma di avvelenamento. Si ebbero dal X al XVII secolo, quando ancora non era stata scoperta la causa, delle vere epidemie di questa malattia, la cui larga diffusione era legata all’uso di un alimento così comune come il pane.
La sintomatologia presentata dai malati di ergotismo era gravissima, determinando fenomeni convulsivi, cancrena degli arti con dolori indicibili, febbre elevatissima che assieme allo stato tossico produceva nel disgraziato ammalato un’insopportabile sensazione come di fuoco” (da Le antiche patologie, Pericle Di Pietro, in Medicina, erbe e magia, Bologna 1981).
La diffusione del culto del Santo risale al fatto che, sulla fine del XI secolo mentre la sua salma veniva traslata dall’Egitto in terra di Francia, su questo paese s’abbatté una grave epidemia di ergotismo contro i cui sintomi erano unico sollievo le applicazioni di grasso di maiale sulla pelle.
Una delle prime fondazioni italiane dell’ordine ospedaliero dei frati Antoniani fu, nel secolo XII, l’ospedale di S.Antonio di Ranverso (TO) dove tuttora sono raffigurati in un antico affresco devoti del santo in processione che portano sulle spalle pezzi di carne e conducono due maiali al guinzaglio.
Fino a tutto l’800 gironzolava per le strade di Casola il “ maialino di Sant’Antonio”. Era allevato con gli scarti che riusciva a trovare grufolando attorno alle case ed era da tutti rispettato perché, in onore di un’antica tradizione, veniva macellato il giorno della festa di S.Antonio e la sua carne distribuita ai poveri del paese.
Resta infine da dire che il fungo claviceps purpurea, che attacca non solo la segala ma tutte le graminacee coltivate, dal punto di vista agricolo non ha mai provocato danni consistenti alle colture mentre resta ancor oggi una fonte di principi attivi molto importante per la fabbricazione di farmaci (ergotamina).






 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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