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MESTRE Ospedale Umberto I

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Ringrazio l'Associazione "storiamestre.it" che  ha autorizzato a pubblicare il lavoro di Pasqual Claudio loro autore.
L’associazione  nasce nel 1988 come spazio di mutuo scambio e di mutuo apprendimento tra storici e storiche, archivisti, insegnanti impegnati nel Movimento di cooperazione educativa, urbanisti provenienti dall’esperienza di Urbanistica democratica. Nel corso degli anni si è occupata di storia locale, di storia delle donne, di storia orale, dell’uso politico della memoria, dell’insegnamento della storia, del rapporto tra storiografia e impegno civile, di archivi e musei cittadini. L’associazione intende riflettere sui più recenti mutamenti urbanistici e ambientali, su come la città si racconta e viene raccontata, e sul rapporto tra luoghi, potere e memoria.


https://storiamestre.it/2013/11/ospedalemestre1906-2008/


Finché rimase un paesone, ancora per quasi tutto l’Ottocento, Mestre non ebbe un ospedale, e i suoi malati più gravi erano curati a Venezia, ai Santi Giovanni e Paolo. Eppure a Mestre durante quel secolo si discusse a più riprese, nel 1839, 1858, 1867, 1878, di aprire un ospedale, ma ogni volta non se ne fece nulla, anche per scarsità di fondi. La svolta arrivò a inizio Novecento, all’epoca della prima urbanizzazione, che trasformò Mestre in una piccola città, a un ritmo già allora vertiginoso: basti dire che i suoi abitanti arrivarono a raddoppiare in soli vent’anni, da 12.000 nel 1901 a 23.500 nel 1921.
Correva l’anno 1900 quando il Comune decise l’istituzione di un ospedale civile: furono stanziate 30.000 lire per la sua realizzazione e si deliberò di intitolarlo a Umberto I, così come accadeva allo stesso tempo per piazza Maggiore (si era all’indomani dell’uccisione del re). Poiché il denaro pubblico non era sufficiente, il sindaco conte Jacopo Rossi promosse presso i privati un “Comitato esecutivo per la costituzione di un ospitale in Mestre”, formato da dodici personalità, che attraverso donazioni, campagne di sottoscrizioni, organizzazione di esposizioni artistiche, balli popolari e spettacoli teatrali di beneficenza, riuscì a raccogliere 50.000 lire in tre anni. Dunque furono in primo luogo i ceti dirigenti locali a mobilitarsi, i vertici della società mestrina, in modo autonomo e collaterale alle istituzioni, ma trovando un buon seguito fra la popolazione, evidentemente persuasa dell’utilità di un ospedale per la città. Gli abitanti di Mestre avrebbero continuato a sostenere l’istituto nel tempo, e con generosità, se si pensa che nel 1936 l’ammontare delle donazioni fu calcolato in due milioni e mezzo di lire.
Il sito per il costruendo nosocomio fu individuato in località Castelvecchio. L’incarico di progettare un edificio “sufficiente a ben piazzare circa 40 malati” fu affidato all’ingegnere mestrino Eugenio Mogno. I  lavori cominciarono nel 1903.
L’Umberto I fu inaugurato il 16 aprile 1906. Era dotato di trentadue posti letto in quattro cameroni, di tredici stanze per dozzinanti, sala operatoria, due refettori, cucina, altri servizi. All’avanguardia era l’impianto di riscaldamento a termosifone. Questo primo edificio prese il nome di  padiglione Pozzan.
Molto presto quel primo fabbricato si dimostrò insufficiente per una città in crescita e già nel 1915 l’ospedale fu dotato di un secondo padiglione, intitolato a Cesare Cecchini.
Subito dopo la guerra i ricoveri e i degenti effettivi raddoppiarono, da 70 a 150 a inizio 1920. L’ospedale serviva non solo Mestre ma anche il circondario; e a Mestre avrebbero presto dovuto affiancarsi Porto Marghera e il suo Quartiere Urbano. Così nel 1919 fu progettato un terzo padiglione, dove collocare il “reparto sanatoriale”. Per questo ampliamento fu acquistato nel 1922 un terreno sulla riva del Marzenego, con la duplice caratteristica di trovarsi in una zona bassa, umida e di matrice argillosa e confinante con il macello. L’edificio fu ultimato nel 1935, e prese il nome di  padiglione De Zottis.
La sua costruzione tuttavia scatenò accese polemiche ma soprattutto sollevò per la prima volta, e precocemente, il tema di una diversa collocazione per l’ospedale cittadino. Ad aprire la discussione fu nel 1924 Paolino Piovesana, nella sua triplice veste di primario ospedaliero (dal 1920), presidente dell’Associazione Antitubercolare e di sindaco fascista della città. La sua contrarietà alla presenza di un tubercolosario a ridosso del centro cittadino divenne l’occasione per lanciare l’idea di un ospedale decentrato. Ovviamente l’argomento igienico-sanitario non poteva essere il solo e nemmeno il più forte. Piovesana infatti, prevedendo un’espansione del centro cittadino nel settore dell’ospedale, paventava un nosocomio incapsulato in un’area fortemente urbanizzata, intrappolato tra le costruzioni, con tutti i problemi di ordine logistico e funzionale che ne potevano derivare. Dalla sua c’era l’esempio di altre città venete, che avevano allontanato le loro strutture, e per farlo c’erano i soldi, compresi due milioni per l’edilizia scolastica che si potevano stornare, potendosi con poca spesa adattare a scuole i padiglioni dismessi. Il nuovo ospedale si sarebbe potuto costruire lungo il Terraglio, il sindaco aveva già individuato un’area nella campagna oltre Villa Tivan e Borgo Pezzana.
L’opposizione al progetto, che si coagulò immediatamente attorno a un “comitato contro il trasferimento dell’ospedale”, aveva alla testa due ex sindaci ma lo scontro non fu politico, almeno non prevalentemente: il fronte del no era trasversale, comprendendo notabili locali e anche uomini di provata fede fascista. I contrari mettevano in campo da un lato l’attaccamento dei mestrini a un’opera sentita come un’irrinunciabile conquista cittadina, dall’altro la disponibilità di ampi spazi liberi per l’ampliamento in loco del complesso ospedaliero. Il loro sospetto era che dietro la proposta si nascondesse un “partito degli immobiliaristi” e in effetti, quando il 17 aprile 1925 la proposta di trasferimento fu bocciata in Consiglio comunale con 23 voti contro 6, i favorevoli erano tutti proprietari di terreni liberi a ridosso del centro di Mestre, Piovesana compreso, oppure tecnici o impresari del ramo costruzioni. E certamente questi interessi stavano alla base di una precisa visione della città, che pensava a un uso diverso, più moderno, delle aree centrali, capace di sospingere in alto i valori immobiliari. Se in Consiglio il fascista Renato Amori, con pomposa retorica, declamò una “Mestre grandiosa” da fare senza tante fisime burocratiche, un editoriale uscito sul Gazzettino il 30 aprile, anonimo, ma sicuramente ispirato da Piovesana, accusava apertamente i consiglieri di aver fatto perdere a Mestre l’occasione di diventare un “grande centro commerciale e industriale”, sull’onda “dell’avvenire radioso” prospettato dal nuovo porto industriale di Marghera; di non saper riconoscere “le condizioni necessarie e sufficienti perché Mestre diventi la grande città che tutti intravvedono”; concludendo che “se poi non abbiamo veramente fede in questo grande avvenire di Mestre […] allora è giusto che l’ospedale resti dov’è, che le strade nuove siano fatte dopo che quelle vecchie saranno riparate” e via proseguendo con gli strali polemici.
Certamente esisteva un problema di capacità ricettiva dell’ospedale, con una popolazione mestrina che crebbe vertiginosamente già fra le due guerre, passando da 25.000 a 70.000 abitanti. Il Piano Regolatore Rosso del 1937 prevedeva un ampliamento fino a 750 posti per un bacino ipotetico di 150.000 abitanti, ma come si sa non fu mai approvato e l’ospedale conobbe nel periodo pochi e ridotti interventi: un dispensario antitubercolare, un padiglione per malattie infettive, una nuova cella mortuaria.
La previsione del Piano Rosso si rivelò sottostimata: la terraferma veneziana arrivò ad avere nel 1975 210.000 abitanti. Una funzione di supplenza era svolta da alcune cliniche private, la Villa delle Rose a Marghera, la Villa Salus delle Suore Mantellate Serve di Maria (dal 1951), il Policlinico San Marco (dal 1960). Il problema del potenziamento delle strutture sanitarie pubbliche comunque rimaneva. Il primo Piano Regolatore Generale per Mestre, del 1962, offriva una soluzione che riprendeva la vecchia idea del trasferimento dell’ospedale. Ancora nel 1960 il direttore sanitario Marcello Forte deplorava “una situazione non più tollerabile: le sale di abbattimento del bestiame sono quasi a ridosso del padiglione ove si trovano i malati del reparto di medicina, emanazioni incomode, esalazioni, sviluppo in modo assai notevole di mosche oltre all’incomodo dato dalle urla del bestiame in posta nei recinti del macello stesso”.
Conseguenza fu posare la prima pietra, il 29 aprile 1966, del “monoblocco”.
Negli anni Settanta l’orientamento a trasferire il nosocomio in altro luogo è ormai condiviso in tutte le sedi. In un primo tempo si è provato su terreni a Carpenedo, scomodando persino Carlo Aymonino per il progetto, datato 1980, senza tener conto della presenza dell’ultimo lembo di un antico bosco planiziale, il Tinto, e dovendo poi rinunciare per l’opposizione vittoriosa di ambientalisti e Italia Nostra. Solo nel 1988 viene finalmente individuata l’area di Zelarino dove sorgerà l’ospedale dell’Angelo e l’anno dopo il Comune, giunta Casellati, ne fa acquisto per la bella somma di tre miliardi e 120 milioni di lire. Poi tutto si ferma, e del nuovo nosocomio non si parla più, sembra non doversi più fare. Così a fine anni Novanta l’azienda sanitaria avvia la costruzione del monoblocchino, “come struttura in grado di surrogare la mancata realizzazione del nuovo ospedale di Mestre”. Accade però nel frattempo che quest’ultimo torni a essere fattibile, per via del project-financing e altro ancora: nel 2002 il Comune trasferisce la proprietà del terreno di Zelarino alla Ulss, con conclusione dei lavori prevista per il 2006. Il taglio del nastro del monoblocchino cade il 9 aprile 2003; all’inaugurazione il direttore generale della Ulss 12 Veneziana Antonio Padoan parlò di “periodo ponte” e il presidente della Regione Galan disse testualmente: “Mi auguro che non si speculi sul fatto che spendiamo 20 miliardi di lire per la struttura oggi inaugurata, dal momento che fra circa quattro anni questo ospedale non ci sarà più. Abbiamo però deciso che in questi quattro anni anche i mestrini, i veneziani e quanti ricorrono alle cure di questo ospedale potessero disporre di strutture all’altezza della nostra storia e tradizione. Il Veneto nel campo della sanità non disinveste, non taglia, anzi produce ulteriormente; è stata condotta ovviamente l’operazione con intelligenza”. Dei politici, si dice, non è il caso di fidarsi, e invece questa volta Galan s’è sbagliato di poco: il monoblocchino ha chiuso dopo cinque anni nel giugno 2008 ed è venuto giù nell’autunno 2009; più facilmente di altri edifici, ha rivelato il tecnico responsabile, perché la struttura non era in cemento armato.
Nella primavera 2008 l’ospedale dell’Angelo è pronto; nel maggio comincia il trasferimento; il 14 giugno chiude l’ultimo reparto.

testo : Ospedale civile Umberto I - ULSS 36  Venezia  1994  presso la Biblioteca civica VEZ di Venezia Mestre


 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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