GEMONA DEL FRIULI Ospedale civile S. Michele - Ospedali d'Italia

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GEMONA DEL FRIULI Ospedale civile S. Michele

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Nel mio lavoro di ricerca ho trovato il PDF della Tesi  di dottorato di ricerca “Storia di Gemona nel Basso medioevo” del Dott. Enrico Miniati Anno accademico 2012-13.
Non è stato semplice rintracciare il Dott. Miniati ma la perseveranza premia. Contattato si è reso prontamente disponibile nel concedermi l’autorizzazione ad utilizzare le parti di mio interesse. E’ sempre difficile però il dover riassumere in poche righe un lavoro minuzioso, ricco di riferimenti e annotazioni bibliografiche,  frutto di un lungo lavoro di ricerca. Mi sono limitato, come per tutte  le altre schede, nel riportare i punti più salienti (a mio parere) ma se chi mi legge volesse saperne di più può trovare il tutto nel volume da lui pubblicato: Gemona nel Basso medioevo - Società Filologica Friulana - Collana: Genti e luoghi del Friuli , Nr. 3 - 2020

Il più grande ospedale cittadino situato all’interno della cerchia muraria era intitolato a S. Michele e secondo la tradizione fu fondato 1259, grazie al cospicuo lascito testamentario voluto da un tal Rodolone, il quale stabilì che un edificio che si trovava nei pressi della chiesa di S. Maria doveva essere adibito come luogo di aiuto ed assistenza per i poveri. Vent’anni dopo questa donazione venne istituita la confraternita di S. Michele, la quale, con molta probabilità, raggruppò le persone che spontaneamente avevano iniziato a prestare la propria opera di carità all’interno della piccola costruzione e che gravitavano contemporaneamente attorno alla chiesa plebanale. Nel primo periodo di attività l’ospedale di S. Michele era fortemente legato alla principale chiesa della città. Con molta probabilità verso la fine del Duecento il capitolo della pieve collaborò attivamente al consolidamento e all’amministrazione dell’ente, non soltanto sotto l’aspetto della direzione spirituale ma anche per quanto riguardava il coordinamento e lo svolgimento dell’attività assistenziale.
A partire dalla fine del Trecento, da quando cioè sono conservati con continuità i registri contabili redatti dei camerari dell’ospedale, una sezione dei quaderni era sempre dedicata alla rendicontazione annuale delle spese, di cui una parte piuttosto consistente serviva a far fronte alla manutenzione ordinaria dell’edificio nosocomiale. L’edificio ospedaliero, che ancora nel Quattrocento non doveva essere di grandi dimensioni, era dunque sottoposto annualmente a vari lavori di manutenzione. Nel 1582 l’intera costruzione fu sopraelevata di un piano.
Il patrimonio dell’ospedale di S. Michele era costituito soprattutto da beni immobili pervenuti all’ente attraverso lasciti e legati testamentari. Dagli affitti che i privati pagavano sulle case e sui terreni di proprietà della fraterna e da una serie cospicua di rendite di denaro, molto spesso a carattere perpetuo, giunte anch’esse all’ente per via testamentaria, aveva origine la gran parte delle risorse economiche che l’istituto impegnava nelle varie attività assistenziali. Oltre a questi capitoli d’entrata c’erano poi le risorse che provenivano da donazioni occasionali, come quelle dei degenti, le quali erano una costante di lungo periodo e si integravano con i lasciti in denaro ricevuti attraverso le elemosine raccolte durante tutto l’anno, come ad esempio, quelle legate alle messe. All’inizio del Quattrocento l’ospedale di S. Michele poteva disporre ogni anno di somme di denaro abbastanza consistenti, che si aggiravano attorno ai settantamila piccoli, una cifra che superava gli importi introitati dalla Comunità mediante il dazio delle missetterie e quello del carico e scarico. La gestione economica dell’ospedale faceva capo al cameraio, la cui nomina era annuale e di solito avveniva nei primi mesi dell’anno. Dagli aderenti al sodalizio veniva scelta una persona capace, la quale aveva l’incarico di riscuotere le rendite e gli affitti e doveva occuparsi delle spese sia ordinarie che straordinarie di tutto l’ente. Al camerario spettava la tutela e la conservazione dei beni dell’ospedale oltre alla gestione dell’aspetto contabile e all’organizzazione delle attività socio-sanitarie dell’istituzione. Il camerario era coadiuvato da quattro provveditori (dopo il 1437 di nomina comunale), i quali, oltre a svolgere un ruolo direttivo all’interno della struttura assistenziale, avevano anche il compito di verificare il suo operato. L’insieme di queste figure era detta la Camera di S. Michele. I camerari non appartenevano al clero e di solito nemmeno alle famiglie che facevano parte del notabilato locale, ma erano per lo più artigiani o commercianti aderenti alla confraternita, i quali avevano alle spalle una certa dimestichezza nella gestione contabile. Di solito le persone scelte per ricoprire questa carica si assumevano l’onere dell’amministrazione per spirito di carità, senza ricevere alcun compenso. Le persone che svolgevano questo incarico acquisivano attraverso un’onesta e ineccepibile gestione un prestigio che si riverberava non solo all’interno della confraternita ma anche in tutta la città. Nella prima metà del Trecento il camerario Marcuto Sartore elaborò il primo registro contabile completo nel quale erano annotate con ordine tutte le somme di denaro che spettavano ogni anno all’istituto.
Il Marcuto ebbe probabilmente la consapevolezza che le entrate dell’ente erano in continuo aumento e che l’amministrazione dell’ospedale diventava anno dopo anno sempre più complicata. Decise quindi di mettere ordine nella gestione contabile dell’ente, redigendo un registro che contenesse tutti i proventi spettanti all’istituto. Compilò così un quaderno ricopiando tutti gli atti notarili originali custoditi dalla fraterna che attestavano una donazione, con a lato gli estremi principali che servivano per la corretta riscossione del censo. In questa maniera creò un elenco ordinato che a partire dal 1300 (anno del Giubileo) indicava puntualmente tutte le entrate spettanti all’ospedale.
Nelle singole registrazioni riportate nel quaderno veniva  indicato il nome del titolare del censo, quando doveva pagarlo, qual era l’importo dovuto e sopra quale bene era assisa l’entrata. Era poi indicato l’anno nel quale era avvenuta la donazione, il nome di chi aveva donato e il nominativo del notaio che all’epoca aveva rogato l’atto originale. Il registro redatto da Marcuto Sartore venne usato per più di trent’anni come principale supporto dell’amministrazione ospedaliera. Fino al 1327 le entrate dell’ospedale di San Michele provenivano per la maggior parte da reddita assisi su beni di terzi, mentre poche erano le proprietà dell’ente. Dal 1300 al 1327 l’ospedale acquisì 77 nuove fonti di entrata, le quali si andarono a sommare alle donazioni ricevute nel secolo precedente. Tranne sei, tutti i censi provenivano da beni che si trovavano nel distretto gemonese. Le entrate assise su beni esterni alla iurisdictio cittadina venivano di norma annotate in una specifica sezione del registro.
Nella seconda metà del Duecento, nel primo periodo di vita dell’ente, l’esiguità del patrimonio e delle entrate a disposizione avranno sicuramente condizionato verso il basso le forme di solidarietà proposte dall’istituto, individuando dunque in Santo Spirito il maggior ospedale del territorio. A partire dal secolo XIV il volume delle entrate dell’ospedale di S. Michele aumentò però progressivamente, toccando un picco nel decennio tra il 1350 ed il 1360. Dopo l’impennata degli anni ’20 del Trecento, che segnala evidentemente l’utilità e la bontà dei servizi offerti dall’ente, il patrimonio dell’istituto conobbe una continua crescita nel corso del Trecento. L’ospedale di S. Michele divenne quindi in breve tempo un ente molto popolare a Gemona e nel territorio meridionale del distretto. La causa dell’incremento delle entrate registrato tra il 1351 ed il 1360 può in una certa misura essere stato determinato dall’insorgenza di varie epidemie di peste nel territorio gemonese. Anche se le donazioni effettuate non sembrano raggiungere i livelli del secondo e del terzo decennio del Trecento, la crescita patrimoniale a partire dagli anni cinquanta del secolo è evidente, soprattutto se confrontata con le nuove entrate incamerate negli anni ’40 del secolo. A differenza di altre località europee l’impatto del contagio a Gemona non interessò elevate percentuali di popolazione, ma la coscienza popolare fu comunque toccata da questo avvenimento e la conseguenza immediata fu il probabile aumento dei lasciti a favore di sodalizi ed enti assistenziali.

Il nucleo centrale del patrimonio dell’ospedale di S. Michele si formò dunque attorno alla metà del Trecento per poi raddoppiare nella consistenza durante la prima metà del secolo successivo. In particolare la tipologia di beni posseduti dall’ospedale di San Michele, se confrontata con quella di altri enti simili, era caratterizzata da una scarsità di mansi (aziende agrarie complesse) a fronte invece di una notevole quantità di ricavi percepiti da rendite ed affitti assisi soprattutto su case e radicamenti fondiari (braide e baiarzi) situati nella maggior parte nel distretto di Gemona.
Le donazioni fatte all’ospedale di S. Michele non fotografano  una particolare categoria professionale di individui o uno specifico gruppo sociale che abbia contribuito in misura preponderante alla formazione del patrimonio dell’ente, ma anzi indicano una grande eterogeneità nello status sociale dei donatori, i quali nella maggior parte dei casi sembrano essere cittadini gemonesi non particolarmente benestanti.
Numerosissimi furono infatti i tessitori, i sarti, i fabbri, i calzolai, i pellicciai che donarono in punto di morte beni o piccole rendite al nosocomio. E’ presumibile che la confraternita di S. Michele sia nata proprio raggruppando personaggi che gestivano in città botteghe artigianali, per poi aprirsi successivamente alle adesioni di individui non necessariamente legati a questa componente. La maggior parte delle donazioni erano di piccolissima entità, ma rappresentavano con molta probabilità un importante sacrificio messo in atto con l’intento di aiutare il prossimo o sperando di salvarsi l’anima dopo la morte (datos et legatos per se ipsum in redemptione anime sue).
Le attività promosse dall’ospedale di S. Michele avevano un carattere polifunzionale, in quanto oltre a prestare cure ed ospitalità a pellegrini e infermi, l’ente accoglieva e cresceva i bambini abbandonati, elargiva elemosine, distribuiva cibo e pasti e forniva un generico aiuto anche di natura economica. Tra tutte queste forme di solidarietà quelle prettamente sanitarie, come ad esempio il pagamento della parcella di un medico, di un barbiere o di un conciaossa, avevano un carattere decisamente laterale impiegando una parte contenuta delle entrate dell’istituto. Anche l’acquisto di medicine, al di là di un confet che sembra essere il rimedio universale dell’ospedale (item spendey soldi II per confet chi io comprai ala Pilirusa chi iera amalada), sottraeva pochissime risorse all’amministrazione della struttura assistenziale. La gran parte dei capitoli di spesa registrati dai camerari di S. Michele vertevano invece attorno all’acquisto di cibo. Il funzionario ospedaliero oltre ad intervenire sul mercato per la grande distribuzione annuale di generi alimentari legata alla sitimina de la fava, la quale si svolgeva il 30 novembre per la festa di Sant’Andrea, una manifestazione di carità promossa da tutte le confraternite gemonesi, abitualmente impiegava la gran parte delle risorse introitate dai censi per offrire pasti sia ai degenti della struttura sia ai cittadini indigenti. Una buona alimentazione non solo permetteva alle persone povere di affrontare al meglio la vita quotidiana, ma contribuiva anche ad una più veloce guarigione degli ammalati. Nel Medioevo, il concetto di matrice classica che vedeva nel cibo la prima medicina, costituiva infatti una parte essenziale della letteratura medica. Un valore terapeutico era assegnato a certi cibi ritenuti particolarmente energetici e perciò adatti al recupero della salute. Dopo una flebotomia o un salasso, cura abitualmente praticata nell’ospedale gemonese, veniva ad esempio consigliato il consumo di uova, vino e carne, ritenuti tra i principali rimedi alla debolezza di un corpo malato. In particolare al S. Michele la carne veniva impiegata come particolare ricostituente. La dieta offerta all’interno dell’ospedale doveva essere dunque ricca e sostanziosa, considerando anche il fatto che solo limitate fasce di consumatori potevano permettersi in quel periodo di mangiare quasi quotidianamente pane di frumento e carne.
Un’altra importante voce di spesa era quella relativa all’acquisto di legna, la quale veniva utilizzata sia per le necessità di cucina che per i bisogni legati al riscaldamento. I rimanenti capitoli di spesa erano rivolti ad affrontare al meglio un ventaglio di situazioni di indigenza e bisogno che i membri della confraternita e le figure centrali dell’ospedale cercavano di lenire con elemosine, acquisti di vestiti e con tutte le forme di carità già ripetutamente segnalate. Ad ogni modo l’ospedale di S. Michele appare, anche grazie alla documentazione sopravvissuta, l’ente assistenziale più attivo a Gemona. Questo istituto entra a pieno titolo all’interno di quella fitta reta di ospedali che sorse in regione tra la fine del secolo XIII e i primi decenni di quello successivo, diventando poi in età moderna la principale struttura sanitaria del gemonese, cioè un vero e proprio ospedale destinato principalmente alle cure degli ammalati.



 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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