NAPOLI Santa Maria del popolo poi degli incurabili - Ospedali d'Italia

Vai ai contenuti

Menu principale:

NAPOLI Santa Maria del popolo poi degli incurabili

Ospedali Sud > Regione Campania > Napoli città > Quelli "Santi"

Questa scheda è stata autorizzata dal curatore del sito, Salvatore Sannino, che ringrazio.
Invito a visitare il sito perchè, secondo me, è molto ricco di informazioni storiche-culturali e scientifiche


https://ospedaleincurabili.jimdo.com/homepage/


La costruzione dell’Ospedale di S. Maria del Popolo, detto poi degli Incurabili comincio’ a Napoli nel 1519 ad opera di due laici: il genovese Ettore Vernazza e la nobildonna catalana Maria Requenses Lonc (indicata sia dai contemporanei che dagli storici col cognome italianizzato Longo e, talvolta, Longa) vedova del dignitario di corte Joannes Lonc.
La nascita di un ospedale per incurabili e inguaribili non era un caso isolato in quel periodo storico in Italia e in Europa; Colombo aveva scoperto il continente americano da ormai ventisette anni e, di ritorno dall’Atlantico aveva portato con sé il morbo della sifilide che, presto, aveva cominciato a mietere vittime in tutta Europa.
A Napoli i primi casi del morbo si registrarono dal gennaio 1496, a sei mesi dalla partenza delle truppe di Carlo VIII che era stato in città dal febbraio al giugno del 1495.
Quando Vernazza alla fine del 1517 raggiunse Napoli, per fondarvi un ospedale con le stesse finalità di quello romano, portò con sé una copia della Bolla di fondazione dell’Arcispedale per prenderlo a modello.
Arrivato a Napoli, Vernazza per realizzare il suo progetto cercò di appoggiarsi alla comunità genovese presente nella città.
Il notaio genovese, cercò denaro dai suoi concittadini, ma non aveva fatto i conti con la vuota permalosità dei napoletani, pertanto dovette rivolgersi alla comunità spagnola che rappresentava il nuovo ceto dominante della città, per ottenere quella malleveria necessaria ad procurarsi consenso e partecipazione dalla nobiltà indigena che voleva imitare i nuovi regnanti. Anche a Napoli Vernazza adoperò lo schema confraternita e poi fondazione, con il passaggio attraverso l’intermediazione di Maria Longo che gli garantì l’apertura presso l’alta borghesia e la nobiltà di credito e credibilità da utilizzare per la realizzazione del suo progetto. Maria Longo aveva le “stimmate” di miracolata della Madonna di Loreto per cui averla al proprio fianco era garanzia di successo.
L’appoggio di una figura carismatica come la Longo non era però sufficiente in questa prima fase a garantire l’iniziativa e Vernazza realizzò anche qui una confraternita laica scegliendo, però, di non fondare ex novo un Oratorio del Divino Amore, ma rifondando una compagnia già esistente, quella dei Bianchi di Giustizia, infondendole però lo spirito degli Oratoriani.
Il compito che i Bianchi di Giustizia si erano proposti era l’assistenza fisica e spirituale ai condannati a morte negli ultimi giorni della loro vita.
Riprendere una compagnia che era andata “dispersa” nell’ultimo decennio del XV secolo, nonché caratterizzata da un’opera di carità così diversa da quella degli oratoriani, era un escamotage cui Vernazza e il Canonico Regolare padre Callisto da Piacenza dovettero ricorrere per invogliare alla partecipazione i nobili napoletani: se avessero accettato di accompagnare i malfattori alla forca allora sarebbe stato molto più semplice convincerli a fondare un ospedale. Inoltre sempre negli anni 1517-1519 si stava costituendo una seconda confraternita, cui aderivano sia catalani che napoletani, intitolata a S. Maria del Popolo, di cui faceva parte Maria Longo.
La Bolla papale che sanciva la fondazione dell’ospedale di S. Maria del Popolo degli Incurabili, ed estendeva ad esso i diritti e i privilegi dell’Arcispedale di S. Giacomo a Roma, è dell’11 marzo 1519 ed è il Breve “Nuper pro parte Vestra” di papa Leone X.
Tra il marzo 1519 e il 27 settembre 1519, data d’inizio delle attività ricettiva e clinica dell’Ospedale, Maria Longo, forte dei suoi contatti con gli strati alti della società, e Ettore Vernazza, si adoperarono per cercare letti e suppellettili e, soprattutto, i locali dove avviare l’opera. Provvisoriamente l’attività cominciò in alcuni locali del vecchio ospedale di S. Nicola al Molo. Sebbene la sede fosse provvisoria non lo era, però, l’istituzione che si trova già citata nel 1520, con tanto di nome proprio (diverso da quello di S. Nicola presso il quale pure si trovava) e la specializzazione: vi sono assistiti “morbati del mal francese, cancari et altri morbi incurabili”.
Alla fine del 1519 Ettore Vernazza lasciò Napoli per Roma, nel 1520 padre Callisto da Piacenza si recò a Firenze per fondarvi un ospedale con le stesse finalità di quello napoletano che aveva appena aperto i battenti. Dal 1520 fino al 1539 fu, dunque, Maria Longo ad occuparsi dell’ospedale al quale dedicò il resto della sua vita. Il complesso sanitario che per secoli i napoletani –e non solo- avrebbero chiamato “l’Incurabili”era destinato a chiamarsi nei progetti dei suoi fondatori “ospedale dei santi Filippo e Giacomo” e a testimonianza ci restano le statue dei due apostoli che accolgono i pazienti e i visitatori ne cortile del nosocomio appena superata la cappella dei Bianchi di Giustizia. Il nome di Santa Maria del Popolo degli Incurabili era quello della Confraternita che era rappresentante presso la Santa Sede degli interessi dell’ospedale e della chiesa che si trovava nel suo perimetro, e che prima di intitolarsi alla Madonna degli Incurabili, doveva intitolarsi ad Ognissanti essendo solo il giorno d’Ognissanti del 1522 cominciata l’attivita’clinica della struttura.
 I primi governatori dell’ospedale furono addirittura il vicerè Raimondo di Cardona, il duca di Atri Andrea Matteo d’Acquaviva, il duca d’Andria Giovan Francesco Carafa e il marchese di Pescara Francesco Ferdinando d’Avalos. L’iniziativa era stata di due laici, ma il vicerè e la nobiltà seguivano l’istituzione da vicino in una sorta di controllo incrociato. Nel 1520 cominciarono le prime costruzioni sulla collina di S. Agnello, zona alta, molto ventilata che, poggiata sulla cinta muraria angioina, garantiva un semi-isolamento utile e un ricambio d’aria indispensabile per una malattia che produceva piaghe. Già allora, però, il Largo delle Pigne, la selva dove affacciava l’ospedale, era abitato da insediamenti extra moenia, mentre alle spalle del nosocomio c’era tutta la città greco romana. Un ospedale facilmente raggiungibile sia dall’interno che dall’esterno della città, vicino com’era ad uno degli ingressi della città: la Porta di S. Gennaro.
Il trasferimento dalla vecchia sede di S. Nicola, alla nuova sulla collina di S. Agnello avvenne con solenne processione il 23 marzo 1522 alla presenza del vicerè e di tutte le autorità civili e religiose. Già nei due anni in cui la sede dell’ospedale era stata al Largo delle Corregge il tipo di patologia che avrebbe trattato era stato delineato e, ora che si passava alla sede definitiva, l’accoglienza si allargò anche alle donne incinte che al nono mese di gravidanza potevano andare in un ospedale e partorire in sicurezza con l’assistenza di un medico e di una levatrice. Ma l’istituto, così come quello di Genova e di Roma, era stato creato per gli incurabili che nella mentalità e nell’accezione comune dell’epoca significava ogni persona inguaribile, quale che fosse la malattia che lo affliggeva, fisica o mentale, venerea o oncologica. L’ospedale era destinato ai poveri, affinché avessero un posto dove essere curati e, se era il momento, morire col conforto dei sacramenti. Incurabile, nel XVI secolo, era anche chi non poteva essere curato a casa per la complessità del male o perché, appunto, troppo povero per permettersi un medico. Ecco perché nella Santa Casa potevano essere ammessi anche ustionati, pazienti con calcoli renali e altre patologie chirurgiche, e ancora colerosi e tubercolotici.
  D’altronde la Bolla papale “Salvatoris nostri”, che aveva accompagnato l’apertura del S. Giacomo di Roma sul cui modello si basavano tutti gli altri Incurabili d’Italia, parlava di “….pauperes infirmos variis morborum incurabilium generibus infectos quibus etiam gallico…”, e quindi era chiaro a chi destinare l’opera. Un “posto di rilievo” nella storia della clinica degli Incurabili di Napoli ce l’hanno però i matti che l’ospedale accolse riservando loro un’attenzione particolare tanto da diventare poi il manicomio di Napoli.
La rappresentanza legale dell’ospedale non fu mai di Maria Longo, sebbene le fosse riconosciuto il titolo di fondatrice e fosse nominata in un documento notarile del 1535 “Gubernatrix Venerabilis Hospitalis Incurabilium Civitatis Neapolis”. A quel tempo le donne non potevano avere nessuna rappresentanza pubblica e/o istituzionale. Quale fosse la sua carica all’interno dell’ospedale dalla fondazione fino al 1535, anno in cui si ritirò in convento, non è noto. Sicuramente la Longo lavorò “dietro le quinte” accanto ai governatori che, sin dal primo momento, furono i soli rappresentanti legali del nosocomio.
Ad economi e protettori, e non a lei, si rivolge il “Motu proprio” di Adriano VI del marzo 1522, alle stesse cariche fa riferimento l’Ordine della Regia Corte della Dogana del dicembre 1522 e infine la Bolla papale di Clemente VII dell’11 dicembre 1523 si riferisce a dei Maestri quando dà loro il diritto di governare l’ospedale. Maria Longo ebbe un ruolo cardine nella prima fase, quella di progettazione e istituzione dell’ospedale, insieme a Ettore Vernazza e padre Callisto da Piacenza; poi quando l’opera fu ben avviata verso una felice e prospera ordinaria amministrazione, la donna si defilò da ogni incarico mantenendo però un ruolo di grande ascendenza presso i governatori che erano gli ordinari amministratori dell’ospedale. Quando l’Ospedale fu aperto nel 1522 Papa Leone X gli concesse tutti i benefici di quello di S. Giacomo a Roma.
Gli Incurabili non dipendevano dall’Ordinario di Napoli, ma direttamente dalla Santa Sede per mezzo della Confraternita di Santa Maria del Popolo. I governatori della Santa Casa venivano scelti tra i suoi iscritti e tra i primi si trovano addirittura l’Imperatore Carlo V, il vicerè Raimondo di Cardona e Isabella d’Aragona.
L’imperatore Carlo V nel 1525 destinò all’ospedale una elemosina annua di 33 tomoli di sale e nel 1531 gli concesse una rendita di 300 ducati a spese del pubblico erario. I capitoli per il reggimento dell’ospedale vennero stabiliti dal vicerè don Pedro de Toledo nel 1539.
La struttura era posta sotto la protezione di S. Maria del Popolo e ogni parte della popolazione napoletana, e non napoletana, era chiamata a fornire un suo rappresentante tra i governatori della struttura sorta a tutela della sua salute. Essi erano: un patrizio napoletano per la nobiltà del Regno, un Cavaliere di Piazza per i nobili cittadini, un Regio Consigliere di S. Chiara o un Presidente della Sommaria per la nobiltà spagnola, un avvocato napoletano a rappresentare il ceto forense, uno dei Primari Negozianti napoletani a rappresentanza della borghesia mercantile, uno dei Negozianti Stranieri in nome degli stranieri.
I sei governatori, più un protettore delegato, formavano il governo dell’ospedale. Ognuno di loro era incaricato del controllo dell’organizzazione di un settore delle attività del nosocomio. Della parte sanitaria si occupavano i medici e i cerusici, della direzione spirituale la stessa Longo, finché non si ritirò in convento, e poi la duchessa di Termoli Maria Ajerbo.
L’ospedale aveva un suo tesoriere, un proprio guardaroba, una cucina, un forno e una macello; era una piccola città nella città, autosufficiente in ogni sua necessità, cui non mancavano mai fondi poiché era oggetto di cospicui lasciti e donazioni.
Lo spazio a disposizione della struttura non bastava e così, nel corso del XVI secolo, più volte furono acquistati case e terreni adiacenti all’ospedale per costruirvi nuovi corpi di fabbrica per ospitare malati, servizi e anche per sistemare meglio le monache che avevano un loro convento all’interno del perimetro dell’ospedale.
Nel 1539, anno dei Capitoli vicereali, va situata anche la morte di Maria Longo, poiché un documento nota–spese del 1541, a proposito di lavori fatti nel monastero dove viveva, si parla di lei come la “quondam” signora Longo.
Il 1539 per gli Incurabili fu l’anno dei cambiamenti: scomparsa la fondatrice, la duchessa di Termoli si defilò in un ruolo puramente formale, e il vicerè ridisegnò il profilo organizzativo dell’istituzione passando così ad un controllo diretto sulle entrate e sulla gestione, poiché aveva il potere di decidere tre dei sei nomi dei Governatori o di prolungare sine die la carica di quelli già al governo.
Le rendite dell’ospedale derivavano da lasciti testamentari, da rendite immobiliari e dai diritti concessi dal potere regio e papale.
Una singolare forma di finanziamento veniva agli Incurabili dal controllo degli introiti derivanti dalle rappresentazioni teatrali ,grazie ad un decreto di Filippo II.
Dalla metà del XVI secolo la Santa Casa aveva ormai assunto il ruolo di ospedale generale capace di accogliere ogni “sorta di infermità”. Questo fu possibile grazie al fatto che tra le sue mura non si faceva soltanto assistenza, ma scienza e sperimentazione, che sono la garanzia di una cura appropriata e all’avanguardia. Nel 1568 l’ospedale accoglieva “piagati e malati di cancari” dei quali si occupavano otto prattici chirurgici, in aggiunta ai tre chirurghi principali che normalmente seguivano i pazienti, tre dei quali si occupavano degli uomini e uno delle donne. I medici internisti, i phisici, erano in numero di due più un prattico fisico residente nella Santa Casa che assicurava una sorta di guardia continua sulle ventiquattro ore.
Ai malati del non meglio specificato “male in canna” era destinato l’ospedale di S. Maria della Misericordia ad Agnano, che era succursale degli Incurabili, dove si praticava la cura delle “fumarole”, verosimilmente aerosol.
Per il trattamento della sifilide nell’ospedale napoletano si praticava la cura allora ritenuta più all’avanguardia: la somministrazione di decotti di scorza di guaiaco, definito per le sue caratteristiche “legno santo”, cui si aggiungeva un altro decotto di un’altra pianta americana: la salsapariglia. A tal fine erano stati allestiti dei locali appositi di isolamento, poiché durante la cura i pazienti dovevano soggiornare in locali caldi per poter sudare ed espellere gli umori maligni. Da qui la necessità di stufe e bracieri anche in estate e di stanze separate dagli altri spazi dell’ospedale.
Per assicurare un approvvigionamento continuo e costante di farmaci, i più vari e più o meno reperibili o costosi, l’ospedale aveva una propria spezieria per il cui mantenimento si spendevano, nel 1568, 4.000 ducati l’anno. Essa riforniva di medicine, oltre agli interni, anche i pazienti poveri della città che non volevano farsi ricoverare.
Per mantenere una comunità così numerosa e per di più composta per la maggior parte da persone ammalatesi, prima che per ogni altra causa, per scarsa o insufficiente alimentazione, il forno dell’ospedale forniva il “miglior pane della città” così come la macelleria “la miglior carne”, inoltre la dieta per i degenti non scarseggiava di formaggio, olio, pasta e di ogni tipo di carne. Solo in un anno si macellavano circa 11.000 polli e si consumavano 46.000 uova. Gli ammalati venivano nutriti on pane bianco, carne di vitella, polli e uova fresche, il personale doveva, invece, accontentarsi del pane nero e della carne vaccina.
Quando un paziente veniva ricoverato agli Incurabili veniva prima visitato dal medico che stabiliva la cura, la dieta e il tipo di trattamento che doveva ricevere. Successivamente veniva spogliato, lavato e rivestito con una tunica nuova. I medici facevano il giro visita due volte al giorno e in caso di infermità era d’obbligo un consulto di tutti i phisici o di tutti i chirurghi. Un medico che mancava senza motivo per una volta al giro visite veniva sostituito da un altro collega scelto dal Maestro di Casa, e il costo della consulenza esterna era detratto dallo stipendio di chi si era assentato; una seconda assenza garantiva il licenziamento in tronco. I medici che curavano gli infermi dovevano “dar loro soddisfazione di buone parole, discorrendo della qualità del male senza affrettarsi” cioè spiegare loro cosa avessero, come intendevano trattarli parlando in modo semplice e completo.
Medicazioni e fasciature dovevano essere eseguite dai medici e dai chirurghi ordinari, non dai prattici né dalla gente di casa cui mancava la competenza professionale e l’esperienza nel campo. All’interno l’ospedale era diviso in diverse strutture: quello degli uomini, suddiviso in Ospedale dei Paesani, dei Soldati e dei Matti, il Camerone dei Moribondi e quello per i Malati di morbo gallico. L’Ospedale delle donne aveva reparti divisi per le Gravide, Luetiche, Moribonde, Matte e affette da scabbia e tigna. Nessuno paziente poteva uscire dall’ospedale poiché farlo equivaleva a farsi dimettere.              
Oltre alla principale opera di cura e assistenza e l’attività di ricerca scientifica svolta dai suoi medici, l’ospedale svolgeva, di pari passo con le altre strutture di carità cittadina, opere di beneficenza rivolte ad altri tipi di bisognosi o disgraziati: forniva doti di maritaggio e aveva un banco pubblico per aiutare i poveri. Il Banco di S. Maria del Popolo, costituito nel 1589, fu dapprima ospitato in alcuni locali siti sotto lo scalone imperiale che si trova nel cortile principale dell’ospedale, poi dal 1597 fu spostato in un altro palazzo di proprietà dell’ospedale.  Soccorreva inoltre persone in carcere per piccoli debiti “onesti”, era quindi una delle istituzioni più importanti per la popolazione non nobile.

 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
Torna ai contenuti | Torna al menu