PIACENZA Ospedale Guglielmo da Saliceto - Ospedali d'Italia

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PIACENZA Ospedale Guglielmo da Saliceto

Ospedali Nord est > Regione Emilia Romagna > Provincia Piacenza

Il contenuto della scheda "deriverebbe" da un lavoro di fine 900 svolto dal Liceo Melchiore Gioia di Piacenza;  Ho cercato un contatto ma mi è stato detto che non erano disponibili. Il lavoro è visibile all'URL:

 http://web.tiscali.it/Ulisse/colera_file/ospedale.htm


E' riportata anche la bibliografia di riferimento.
Naturalmente sono sempre disponibile a riportare la correttà "paternità" del saggio, come pure, nel tempo, cercherò di produrre una scheda  "personalizzata"

L'Ospedale "Guglielmo da Saliceto", trae le sue origini da una Bolla Pontificia dell'8 ottobre 1471, con cui Papa Sisto IV legittimò la fondazione dell'"Ospedale Grande", la cui costruzione, sul terreno attiguo al Monastero del Santo Sepolcro, ebbe inizio il 27 settembre del 1472.
Un decreto del concilio di Nicea (325) dispose che ogni città dovesse avere un proprio xenodochio, naturalmente s'intendeva poco più di un tetto e di un giaciglio, per accogliere i pellegrini bisognosi dì un ricovero. Proprio per la sua importanza stradale, a Piacenza passavano molti pellegrini diretti in terra santa, c'erano numerosi ricoveri ospedalieri che appartenevano a congregazioni d’ambito locale (frati ospitalieri Antoniniani o del tau, ordine militare del tempio di Gerusalemme), spesso erano istituiti da ricchi signori convertiti. Nel concilio di Aquisgrana si dispose che ad ogni chiesa fosse unito un ospedale sotto la protezione del Vescovo ed è proprio nel sec.IX che sorsero le prime istituzioni nel piacentino. Nelle antiche carte si trova menzione di un ospedale di S. Antonino presso il " Borgo dei leoni " che dovrebbe essere stato il primo sorto nella città. L'imperatore Lodovico il Pio nell'anno 816 decretò che due parti dei lasciti alle chiese si devolvessero a favore dei poveri e la terza a favore dei chierici. Tutti questi ospedali, annessi alle chiese e ai conventi, erano governati dai relativi priori o rettori ma le loro rendite erano spesso devolute non tanto al bisogno dell'ospedale quanto a quello dei rettori stessi delle chiese e dei conventi. Nei secoli Medievali c'era gran munificenza dei cristiani verso le chiese e i poveri: spesso nelle disposizioni testamentarie gli eredi erano i poveri. Questo ci fa capire come potesse verificarsi la confusione delle loro rendite a beneficio tanto dei religiosi, quanto dei poveri. Proprio per arginare la tendenza a disperdere o a sottrarre le rendite si manifestò la volontà di riunire in un unico ospedale i tanti ospedaletti esistenti, anche perché i poveri morivano per colpa degli avidi amministratori …".
Il più antico documento che attesta questa volontà è un atto del notaio Abramo di Piozzano cancelliere della Magnifica Comunità di Piacenza e deputato alle provvisioni, reca la data dell'11-04-1471 ed è sottoscritto anche dal notaio Bernardo Pallastrelli. Fu decisa la concentrazione di tutti gli ospedali del territorio ad eccezione di quelli per contagiosi di S. Lazzaro e di S. Antonio. Sappiamo, infatti, che presso la chiesa di S. Antonio, fuori porta Stralevata, nel 1172 fu fondato un ospedale per gli ammalati di fuoco sacro, custodito da uno speciale ordine di religiosi sotto la regola di S. Agostino (frati del tau), mentre l'altro ospedale fuori città detto dello "Spirito Santo", che sorse poco lontano da S. Lazzaro, fu un lebbrosario e rimase autonomo fino alla costruzione del collegio fondato dal Cardinale Giulio Alberoni.
Questa delibera non accolse però generali consensi anzi, urtando contro gli interessi dei singoli rettori, suscitò in questi malumori e ribellioni. Per questo fu impostata un'accesa propaganda: furono scelti quattro componenti il "consiglio generale" della città con l'aiuto di Mons. Campesio, Vescovo di Piacenza, e del duca Galeazzo M. Sforza e ci si avvalse della predicazione di Fra Michele da Carcano che, il 27 maggio, iniziò in piazza del comune a convincere i renitenti minacciando morte e inferno entro 14 mesi a chi non avesse contribuito.
Maggiore commozione produsse la successiva predica del 3 giugno, tenuta sulla piazza del Duomo davanti ad una folla di diecimila persone che fecero abbondanti offerte. Fu allora che il Vescovo Campesio, il commissario ducale e il podestà si misero alla testa del clero e del popolo per posare la prima pietra nel luogo già stabilito presso il rivo dì Campagna, a mezza strada tra la chiesa di S. Sepolcro e quella della Madonna, sul terreno appartenente ai monaci di S. Sepolcro e da loro ceduto. I consoli dei paratici dei tessitori, dei formaggiari e dei sarti il 29 luglio cedettero ai deputati della comunità i loro ospedali di S. Giacomo e S. Macario.
L'ostinata resistenza di alcuni rettori fece sì che i deputati della comunità si rivolgessero al popolo intero ricorrendo ancora ad una focosa predica di fra Michele da Carcano che, dopo aver lanciato paurose minacce, partì subito per Milano nel timore di rappresaglie.
Illustri studiosi hanno osservato che le opposizioni si levarono per la difesa dei propri interessi, senza alcuna preoccupazione per la dannosa agglomerazione di tanti infermi colpiti da malattie diverse: non si pensò ad erigere vari padiglioni per dividere le forme morbose diverse, perché mancava ancora una coscienza di questi concetti.
Il dott. Buscarini riportò la nota dei 31 ospedali il cui concentramento nel 1471 diede vita al grande Ospedale "…aperto a tutte le specie di infermi…".Eccoli riportati :

1. Ospedale di S. Antonino;
2. Ospedale S. Stefano;
3. Ospedale S. Bernardo;
4. Ospedale S. Anna;
5. Ospedale di San Lazzaro fuori porta;
6. Ospedale S. Spirito;
7. Ospedale del Montale.
8. Ospedale di S. Salvatore;
9. Ospedale di S. Savino.
10. Ospedale di S. Agnese (oltre Fodesta);
11. Ospedale S. Macario;
12. Ospedale di S. Maria in Borghetto.
13. Ospedale di S. Marco oltre Fodesta;
14. Ospedale S. Bartolomeo nuovo;
15. Ospedale S. Sepolcro;
16. Ospedale di S. Antonio entro le mura;
17. Ospedale S. Vittoria;
18. Ospedale della Misericordia
19. Ospedale di S. Antonio sui confini della porta stessa;
20. Ospedale delle Casolle;
21. Ospedale dei Pellegrini;
22. Ospedale di S. Giacomo
23. Ospedale di S. Benedetto;
24. Ospedale di S. Maria del Ponte;
25. Ospedale di S. Brigida;
26. Ospedale di S. Matteo.
27. Ospedale di Dio;
28. Ospedale S. Elisabetta;
29. Ospedale S. Maria Maddalena;
30. Ospedale di S. Raimondo;
31. Ospedale S. Cristoforo in Borgo, P. S. Raimondo.

Il nucleo originario dell’Ospedale era costituito da un edificio a pianta a crociera e il complesso era dotato anche di un proprio cimitero, che nel 1778 fu dichiarato insufficiente dai rettori dell’ospedale i quali decisero di fabbricare un nuovo cimitero fuori dal recinto dell’ospedale. La costruzione fu continuata, anche se ostacolata da continue infiltrazioni d’acqua, poi presunte responsabili della prima epidemia di colera del 1836.
Dopo l’accentramento, il nuovo ente assunse un rilievo cospicuo che andò sempre più potenziandosi. In epoca più recente un ulteriore processo di unificazione di istituti e opere pie si attuò all'epoca del governo parmense (rescritto ducale 5-11-1817) in forza del quale i principali istituti di assistenza del ducato di Parma e Piacenza venivano riuniti in un unico ente sotto la denominazione di "Ospizi Civili".
Vennero fusi nell'amministrazione dell'Ospedale Maggiore i seguenti istituti piacentini: ospizi delle orfane (Marocche), ospizio delle mendicanti di S. Carlo, noto come Carline, ospizio degli orfani e degli esposti, ospizio delle Preservate. Questa unificazione durerà ininterrottamente fino ai nostri tempi quando, con l'istituzione delle regioni, l'ospedale tornerà ad essere un ente autonomo.
Già nel 1806 gli ospizi civili di Piacenza erano ordinati amministrativamente da un regolamento che rimase sostanzialmente immutato per mezzo secolo.
Venne istituita una commissione amministrativa che si componeva del Podestà e di cinque membri scelti tra persone elevate per censo e posizione. La commissione rinnovata ogni anno per un quinto doveva attuare le misure convenienti per un migliore trattamento dei malati; essa doveva, assurdamente, accettare o dimettere gli ammalati senza avere nessuna cognizione di medicina.
Il controllo sull'andamento tecnico amministrativo degli ospizi era assegnato all'ordinatore generale, prescelto annualmente fra i membri della commissione; egli era, di fatto, il direttore.
C'era poi il ricevitore o cassiere, nominato direttamente dagli organi governativi, ed un segretario che, se nominato tra i membri del consiglio, non veniva retribuito, per questo era normalmente scelto tra persone estranee al consiglio stesso.
La fuga da Piacenza delle truppe francesi e l'arrivo di quelle austriache lasciarono agli ospizi civili il gravoso onere di due ospedali militari affollati di soldati infermi e feriti ai quali doveva provvedere l'amministrazione degli ospizi. Per insufficienza di locali, si ricorse all'utilizzo di S. Sepolcro per il ricovero dei pazzi e dei militari feriti, mentre in S. Savino si allestì un ospedale militare perché il convento, già in precedenza, aveva accolto soldati bisognosi di cure. I rimborsi dovuti all'amministrazione per la cura dei soldati non furono mai soddisfatti pienamente.
Nel 1814 ci fu anche una violenta epidemia influenzale tra i piacentini che portò ad un dissesto generale, per cui si ricorse anzi tempo alla riscossione dei canoni d'affitto dei possedimenti agricoli. Le autorità centrali disposero che il 24% sull'utile netto, riscosso dalle comunità nell'esazione dei dazi sui generi di consumo, venisse versato agli ospizi; si ebbe così la prima forma di sussidio comunale.
Venne ampliata la commissione amministrativa e fu istituito un ispettore medico con funzioni di consulente tecnico.
Le nuove istituzioni sorte dalla rivoluzione e dallo spirito del secolo videro progressivamente la scomparsa dei diritti che il Vescovo diocesano aveva conservato negli ospedali fin dall'età medievale. Specialmente nei ducati parmensi si ebbe la totale esautorazione dell'autorità vescovile nell'ambito ospedaliero. A Piacenza, invece per decreto di Maria Luigia (1815) mons. Lodovico Loschi, vicario della diocesi, entrò a far parte della commissione per poi assurgere alla carica di presidente della commissione stessa che lasciò quando, nel 1824, diventò Vescovo di Piacenza.
Maria Luigia fece dono all'amministrazione non solo dei beni monastici di Chiaravalle (terre, case, molino), ma anche dei monasteri urbani di S. Savino e di S. Sepolcro, quest'ultimo posto vicino all'ospedale, e quindi di grande utilità per l'ampliamento dell'edificio. Venne poi imposto al comune cittadino di contribuire con sovvenzioni, alla vita degli ospizi. Il contributo comunale si estese poi ad ogni singolo amministrato povero, ricoverato in ospedale, per questo ci fu un sensibile incremento del numero degli infermi e ricoverati presso gli ospizi minori.
Tra i molteplici compiti istituzionali e fini caritatevoli degli ospizi va ricordata anche l'assistenza agli ammalati di mente: i pazzerelli.
La commissione dovette affrontare un gravoso impegno nell'agosto del 1836 a causa del cholera morbus.
Fu proprio il medico ispettore degli ospizi che affermò che le manifestazioni iniziali dell'epidemia dovessero imputarsi al modo in cui i becchini degli ospizi procedevano alla sepoltura dei ricoverati deceduti. I tumuli, a causa di un'infiltrazione d'acqua, venivano disposti a profondità insufficiente e questo provocava miasmi che appestavano l'aria, specie d'estate. Si sospettò che dal cimitero l'acqua contaminata fosse arrivata ai pozzi del vicinissimo ospedale. Forse anche per questo il colera infierì soprattutto nel quartiere compreso tra le vie di Cantarana, S. Nazzaro e S. Bartolomeo dove era stato appunto allestito il cimitero dell'ospedale.
Fu per fronteggiare questo evento che, a cura degli ospizi, si istituì un lazzaretto nell'ex convento di S. Agostino, dove venivano fatti affluire ì contagiati e fu incaricato dei preparativi il dott. G. Antonio Rebasti che era in rapporto con il Tommasini, proto medico dello stato parmense. Fin dal 1832 un decreto ducale, sotto il pericolo incombente del colera aveva nominato una commissione centrale di sanità per il territorio di Piacenza.
Fu anche pubblicato un opuscolo con misure igieniche atte a prevenire l'insorgenza del morbo.
Il 29-6-1836 ci furono i primi ricoveri nell'ex convento di S. Agostino. Il primo caso si ebbe in ospedale e da lì si propagò nella contrada di Cantarana. Il 3 luglio 1836 il Podestà emise una circolare con la quale si obbligavano i medici a denunciare al Governatore i "casi di vero o apparente cholera " e fu vietato l'ingresso in città ai contadini. Tommasini venne a visitare il 9 luglio 1836 l'ospedale di S Agostino e il lazzaretto di Calendasco. Cappuccini e monache sostituirono molti infermieri timorosi del contagio. Tra la gente c'era molta ostilità nei confronti del ricovero in S. Agostino e delle cure ospedaliere.
Il 20-9-1836 fu chiuso l'ospedale di S. Agostino che aveva ospitato 823 colerosi tra i quali 511 furono i deceduti, prevalentemente donne. Si trattò comunque di una semplice tregua poiché col nuovo inferire del morbo nel 1854-55 i locali avrebbero avuto la stessa destinazione d’uso.
Con il ritorno dei Borboni nel ducato di Parma e Piacenza (1847), pur essendo mutato governo, alla direzione dello stato rimasero gli stessi ministri di Maria Luigia che proposero provvedimenti per controllare maggiormente le amministrazioni. I membri del consiglio dovevano prestare, all'atto dell'insediamento all'incarico, un giuramento di fedeltà in cui si doveva dichiarare di non appartenere "ad alcuna società sia pubblica che segreta, contraria all'augusto sovrano". Tra le figure più in evidenza del movimento risorgimentale piacentino ci furono proprio membri e medici degli ospizi civili.
I consigli di amministrazione furono ampiamente scavalcati dalla formale istituzione dì un funzionario governativo con vari poteri. Le funzioni amministrative generalmente erano superiori a quelle tecniche.
La legge del 1850 rimase efficace e valida fino al 1859, anno in cui Piacenza entrò a far parte dello stato unitario italiano.
L'ospedale mantenne sempre il suo carattere di "istituto della carità", l'ammissione era riservata ai poveri che potevano far certificare la loro condizione dal parroco, se abitavano in città, oppure dal sindaco del comune, se risiedevano in provincia.
L'ammissione al nosocomio era vietata ai malati cronici, ai bambini al di sotto dei sei anni e agli affetti da malattie contagiose (vaiolo, colera, tifo), per i quali si provvide all’apertura di speciali lazzaretti come l’ospedale di S. Agostino per i colerosi..
La pratica assistenziale, anche se esercitata da istituti tipicamente laici, come per esempio la Congregazione della carità, era essenzialmente basata su di un sistema ecclesiastico e su di una circoscrizione parrocchiale, ereditati dai secoli precedenti.

Testo: Cinque secoli di storia ospedaliera piacentina (1471-1971) - 1973

 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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