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OVADA Ospedale Civile S. Antonio Abate

Ospedali Nord Ovest > Regione Piemonte > Alessandria provincia




Questa pagina è stata resa possibile dall'interessamento del Sindaco di Ovada che ha ricercato e trovato, il materiale  richiesto, nella rivista URBS del Giugno 2007, pubblicata dalla loro Accademia Urbense, che opera per la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico, linguistico e folcloristico dell'Ovadese  di cui indico il link :


                                                                                                       https://www.accademiaurbense.it/



All’angusto ospedale, sotto il titolo di Sant’Antonio che sorgeva fuori del borgo, presso la chiesa dedicata a quel santo, si volle, or sono due anni, sostituirne un altro maestoso, sul disegno del cavalier Antonelli, architetto novarese. Era avvenuto che, alla fine dell’epidemia di colera del 1836, le autorità e la cittadinanza ovadese, nonostante che con Regio Editto del 24 dicembre l’ospedale fosse stato riconosciuto quale Ente Morale, sotto il titolo di ospedale Sant’Antonio, il cui servizio era a cura del Comune che doveva stipendiare allo scopo un medico e un chirurgo, poste di fronte all’assoluta inadeguatezza delle strutture sanitarie esistenti che il morbo aveva tragicamente evidenziato, sentirono la necessità di dotarsi di una struttura sanitaria stabile, più idonea e consona alle necessità mediche. Il 14 marzo 1838 nella sala consulare presso la parrocchia dell’Assunta di Ovada, in presenza del Sindaco, Biagio Gilardini, la Congregazione di Carità e il suo Presidente, Don Ferdinando Bracco, Prevosto, si riunirono per concordare e dar vita ad un’impresa che era di fondamentale interesse per la comunità ovadese. In tale circostanza, infatti, vennero stabilite le necessarie disposizioni per l’ingrandimento, e ristoro del locale de’ poveri infermi avendone da S.M. impetrata l’autorizzazione. Si tratta di un momento topico per la storia sanitaria del borgo che vede impegnarsi per il nobile intento oltre 40 persone, in rappresentanza di tutti gli ovadese esponenti delle diverse attività falegnami, contadini, muratori addetti ai trasporti eccetera. Il Prevosto si assunse l’incarico dell’emissione dei mandati per spese diverse in conformità del disegno. Venne suggellata una nuova solenne promessa, quella cioè di portare a compimento un’opera al sollievo dei sofferenti, tanto richiesta e che mai come negli ultimi tempi e per tanti motivi, soprattutto di natura epidemica, si era resa necessaria. Ad ognuno dei presenti fu assegnato un incarico ben preciso: L’incarico per la colletta in Borgo e petizioni, la direzione dei lavori, assistenti alla fabbrica, collettori del pane e vino da somministrarsi agli operai, provveditore dei materiali, trasporto dei materiali sopra bestie da basto a gratis, periti per il legname di costruzione, materiali sopra carri a gratis, sollecitatori a prestare l’opera gratis nella classe dei contadini, sollecitatori per la classe dei muratori e facchini a prestare la loro opera gratis, sollecitatori della classe dei maestri muratori a prestare la loro opera gratis. L’opera che si intendeva realizzare aveva il compito di sostituire il vecchio “spedale” la cui data di fondazione si perdeva nel tempo. Le prime notizie dell’esistenza di un ospitale in Ovada si ricavano dal testamento del 26 novembre 1289 del medico ovadese Lanterno redatto dal notaio Giacomo di Santa Savina, nel quale veniva lasciato un lascito di 20 soldi da ripetersi per tre anni all’Hospitale del mercato di Ovada. Pochi giorni dopo, il 1 dicembre, Giacomo Balbus e Uberto chiedevano al vescovo acquese Aglierio la conferma di un incarico presso “l’ospitale situm in posse Uvade, in mercato”. Si potrebbe quindi ipotizzare che si stia costruendo in quegli anni la primitiva struttura ospedaliera che prenderà il nome di “Hospitale Sancti Antonio de mercato” come attestano gli statuti ovadesi del 1327. Molto probabilmente in origine non era niente altro che una casa o una tettoia, lungo la strada, adibita a ricovero per pellegrini e forestieri. Senz’altro era situato vicino ad una chiesa poiché erano gli Ecclesiastici che soccorrevano i poveri e gli ammalati. Grazie al cartolario del vescovo di Acqui, Guido dei Marchesi di Incisa, veniamo conoscenza dei problemi in cui versava l’ospedale nel 1370 e della impossibilità da parte del frate ospedaliero Giacomo da Cherasco di poter continuare la sua opera di bene all’interno dell’ospizio. Il vescovo invitava tutti i fedeli della diocesi ad offrire il proprio aiuto. Il fabbricato fu convertito in un edificio “pro hospitalitatem et ad ricreationem Christi Paumerum” presso la chiesa del beato Antonio con il decreto del vescovo di Acqui Bonifacio Sigismondo nel 1443 che accordò 40 giorni di indulgenza a chi pentito e confessato concorresse con aiuti materiali e con elemosina alla costruzione del medesimo. Successivamente dietro richiesta del popolo ovadese, Papa Paolo III con Breve del 13 febbraio 1548 elevò l’ospedale Sant’Antonio di Ovada ad Ente Morale rendendolo indipendente da qualsiasi autorità ecclesiastica ed affidando l’amministrazione ai nominati dal popolo che assunsero il nome di protettori (amministratori). Nel 1657 l’ospedale era costituito, al primo piano, da un lungo e largo dormitorio con letti da entrambi i lati ed un altare al centro a pro degli ammalati. A pianterreno vi erano tre stanze ad abitate da donne povere che non potevano pagare la pigione. Nel 1725 il dormitorio venne demolito per farvi un teatro per cui il nosocomio fu ridotto a due sole stanze, una per gli infermi (maschi e femmine) l’altra per la cucina ed abitazione del custode. Nel 1776 l’ospedale consisteva di quattro locali: uno serviva per gli uomini, uno per le donne, il terzo per cucina ed abitazione del custode e uno piccolo, umido e a pianterreno era adibito a ripostiglio del carbone. Nell’inverno del 1776 molti furono i ricoverati, 12 per l’esattezza. A causa dei pochi letti il custode fu obbligato a porne due per letto. Cosa disdicevole sia per il medico, ma soprattutto per i sacerdoti, perché non potevano confessare gli ammalati con la dovuta segretezza. Per ovviare a questo inconveniente, delle persone caritatevoli finanziarono la costruzione di nuove stanze moderne a sollievo degli infermi per cui fu abbattuta la platea del teatro. L’ospedale vecchio di Ovada aveva ormai solide basi, ma molto insufficienti per cui si comprende l’esigenza di una nuova struttura. Dal 1783 al 1836 la situazione degli arredi e degli spazi dell’ospedale non si era molto modificata. Le epidemie che si abbatterono nella prima metà dell’ottocento su Ovada, quella del tifo petecchiale del 1817, seguita vent’anni dopo da quella colerica, l’aumento della popolazione, avevano messo in evidenza l’inadeguatezza della struttura. Ciò ci viene testimoniato nel 1840 quando, in occasione dei festeggiamenti del bicentenario del culto della Chiesa della Concezione di Maria, il padre Bernardino Crestadoro durante la predica, invece di trattare le origini storiche dell’edificio, mise in evidenza alcune carenze della cittadina: sani, angustissimo, non pari, non decoroso ad un popolo che, se profitta in ricchezza, penetrate nel vostro ospedale, sordido con le pareti di muffa grommose, ammorbante i moltiplica ancor più in miserie: vedete, toccate. Mettete poscia a confronto la casa ove Gesù Cristo risiede a ricambiare opera di misericordia con misericordie più grandi, e quella ove soffre nel sofferire dei suoi poveri, e non ne arrossite, e non vi commuovete, se il cuore vi regge. A sollecitare la costruzione di un nuovo ospedale intervenne anche il padre scolopio Domenico Maurizio Buccelli il quale scrisse nel 1842, pochi mesi prima di morire, tre canzoni per la nuova fabbrica ( riportate nell’articolo originale). Padre Buccelli era molto stimato dalla popolazione ovadese perché uomo colto, caritatevole e grande pedagogo, e riuscì a stimolare maggiormente i già motivati cittadini. Nel 1842 avvenne la posa della prima pietra della fabbrica su progetto eseguito gratuitamente dall’architetto ed ingegnere novarese Alessandro Antonelli. Il progetto comprendeva anche i locali per l’orfanatrofio e l’asilo infantile. Questo abbinamento sottolinea la funzione assistenziale in senso lato ancora riservata all’ospedale dalla mentalità del tempo. La popolazione concorse tutta alla costruzione del nuovo edificio fornendo gratuitamente i materiali per la edificazione e la propria manodopera con grande entusiasmo, sorretto da una fede viva e da un profondo spirito di carità come apprendiamo dal supplemento al numero 591 del 13 maggio 1906: è ancora tradizione viva, la cui memoria non deve spegnersi con la vita degli uomini di quel tempo, che lunghe schiere di uomini e donne di ogni ceto e condizione, traevano attaccati a funi carri carichi di pietre e sabbia raccolti nel greto dei fiumi e cantando sacri inni di carità si incitavano a vicenda in questa opera meravigliosa. Anche il dottor Ignazio Buffa per sollecitare la partecipazione attiva degli ovadesi nel 1843 scrisse un inno con dedica all’architetto Antonelli (riportato in appendice all’articolo). Non da meno fu Domenico b Buffa, fratello di Ignazio il quale, nella rubrica “Annali della patria beneficenza” scrisse un articolo “l’Ospedale di Ovada e l’architetto Antonelli”; finché un paese è piccolo non vi è bisogno di pubblici ricoveri; facilmente il dolore dun solo diventa il dolore di tutti; se un fanciullo rimane orfano, v’ha sempre chi lo raccoglie e lo congiunge alla propria famiglia; se uno dalla vecchiezza o dalle infermità è ridotto a non si poter procacciare il vitto, i vicini, i compari, la comare, tutti concorrono a sostenerlo, chi gli fornisce una cosa, chi l’altra e tutto questo senza rumore, ma naturalmente, senza, direi quasi, sentire il pregio dell’opera buona che si compie. Ma appena un paese comincia a farsi più popoloso, e quindi i suoi abitanti ad essere addetti non all’agricoltura soltanto, ma all’arti ed al traffico, allora comincia a divenire possibile che una sottile parete divida una famiglia desolata da un’altra tutta immersa nella gioia, allora il dolore rimane concentrato in chi ne fu colpito, geme ignorato anche da più vicini, ed è anzi accresciuto dall’inconscio e gioia altrui. Quando perciò la carità individuale diviene insufficiente per l’accresciuta popolazione, comincia ad essere necessaria la carità pubblica, allora sorgono i ricoveri, e prima di tutti gli ospedali. Lo spedale della città è diverso da quello dei paesi. Il primo è un vero asilo di malati, nulla di più; finché uno è infermo ivi trova ricovero, assistenza, carità; ma recuperata appena la salute gli è aperta la porta e l’ospedale si dimentica di lui. Non così nei paesi: ivi esso è veramente la casa del poveri. Finché la stagione è buona e ciascuno può in qualche modo trovare di che vivere, in esso han ricetto i soli malati e le sale sono quasi deserte; ma al cadere della prima neve ad un tratto si ripopola; i vecchi che non hanno casa, ed abbandonati perirebbero di fame e di freddo, trovano quivi, e pane e ricovero sicuro, finché col ritornare della primavera possano risalutare l’aperto cielo.
(Segue ancora nell’articolo originale). Nel 1860, previa approvazione di appalto, vengono ricominciati i lavori nella parte interna del nosocomio. Però i lavori subirono rallentamenti dovuti a divergenze con l’appaltatore e così l’opera venne terminata nell’anno 1867 e la struttura fu agibile agli ammalati nell’agosto dello stesso anno. A ricordo dell’inaugurazione, nel 1905 venne apposta all’interno dell’ospedale una lapide marmorea. Piccoli e grandi benefattori contribuirono con donazioni allo sviluppo crescente del nosocomio; il loro nome venne inciso in tre lapidi marmoree poste in capo alla prima scala dell’ospedale nel 1883. I soldi per il funzionamento dell’ospedale non provenivano solo da piccole o grandi elargizioni fatte dai cittadini ovadesi, ma anche dal ricavato delle feste da ballo, dalle multe che il demanio riversava all’economato del nosocomio, dai proventi nei contesti giudiziari, dalle collette fatte nei caffè, negli spacci di sale e tabacchi, dalle elemosine raccolte nelle chiese, da atti di generosità (fra questi si ricorda ad esempio il gesto di una povera vedova che donò il proprio vestito da sposa), e dai lasciti di persone facoltose. (Nell’articolo vengono riportati i contenuti delle lapidi affisse in onore dei donatori). Il più grande aiuto giunse da parte dei sacerdoti che operavano per finanziare l’ospedale sia attraverso la raccolta dell’elemosina sia per il suo buon funzionamento e per l’assistenza agli infermi. Meritevole di memoria per l’amministrazione dell’ospedale, fu la figura del prete Giacomo Gazzo, il quale non operò nella nuova struttura, ma aveva operato in quella vecchia durante l’epidemia di tifo petecchiale e con il suo sacrificio aveva gettato le basi per entusiasmare e infervorare la popolazione. Per onorare degnamente la sua figura la lapide che si trovava nel vecchio ospedale venne traslata nel nuovo edificio. L’ospedale di Ovada, nel progetto dell’architetto Antonelli, non corrispondeva, tranne che nell’ubicazione, al secondo punto delle nuove concezioni sanitarie. Le infermerie non erano piccole né si strutturavano in uno schema planimetrico nuovo. Infatti vi era una sola, enorme ed altissima corsia, però era asciutta e ben areata. Durante tutto l’ottocento l’ospedale di Ovada si adeguò sempre di più ai nuovi principi sanitari: l’ospedale andava ognora progredendo nella via di quei miglioramenti interni che mano a mano apparivano necessari; così che alle rustiche pareti esterne si sostituì decente facciata; ai vecchi ed antigienici pavimenti di mattoni si sostituirono eleganti pavimenti di marmo e cemento, agli antichi ed incomodi pagliericci di foglie di granoturco si sono sostituite le reti metalliche dotando ogni letto di due soffici materassi, uno di lana e uno di crine vegetale; si è formata una sezione chirurgica che prima non esisteva con una relativa sala di operazione moderna e fornita almeno del necessario ad un’operazione anche di alta chirurgia, arredando questa sezione con nuovi ed eleganti letti; si è abolita l’antica ed infruttifera vigna esistente nel recinto dell’ospedale per sostituirla con aiuole di fiori e piante verdeggianti il che varrà col tempo ad abbellire l’entrata dell’ospedale ed a rendere meno triste agli infermi questo luogo di dolori; si è provvisto a migliore ubicazione delle latrine fornendole di abbondante acqua. L’ospedale si sta evolvendo: da una prima forma oscillante tra ospizio dei viandanti e ricovero di persone ammalate povere, accolte soprattutto perché privi di mezzi e di assistenza nella loro abitazione privata, ad una seconda forma dove il compito alberghiero è venuto meno e della primitiva funzione si sta accentuando il momento terapeutico rispetto a quello genericamente assistenziale. Un’altra innovazione dell’ottocento con la prima legislazione sanitaria dello Stato liberale, fu l’obbligo del regolamento per tutti gli ospedali (legge 20 marzo 1865 sulla sanità pubblica). In Italia però questa legge non venne applicata se non con la legge sanitaria del 1888 che vincolava i vari servizi sanitari con precise norme scritte. Ma noi sappiamo che l’ospedale di Ovada, grazie al proprio statuto e regolamento si era già adeguato alla legge dal 1865. (Nell’articolo vengono riportati -ad esempio-alcuni capitoli del regolamento).
Oggi è sede del Museo Paleontologico "Maini"




 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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