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ARICCIA Ospedale Ortopedico

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Questa scheda deriva integralmente dal lavoro del Dott. Nunzio Spina, pubblicato su  Giornale Italiano di Ortopedia e Traumatologia agosto 2011:37:215-224 che,  contattato, si
è prontamente reso disponibile alla condivisione del progetto

https://www.giot.it/wp-content/uploads/2016/07/ARICCIA.pdf


Tutto scaturì dal legame indissolubile che si era venuto a creare tra il territorio di Ariccia e la famiglia Chigi, una delle più facoltose e influenti dello Stato Pontificio. Ingenti i beni immobiliari accumulati negli anni da questa dinastia di banchieri, che avrebbe portato in dote anche un papa, Alessandro VII (1655-1667), e vari cardinali. Alla residenza ufficiale romana, l’attuale Palazzo Chigi sede della presidenza del Consiglio dei Ministri, e a quella suburbana, la Villa Farnesina in Trastevere, si aggiunse, appunto, una dimora di campagna ad Ariccia, o all’Ariccia, come ancora oggi si è soliti dire.
Agostino Chigi decise di prendere parte alla prima campagna d’Africa per la conquista dell’Eritrea. Con la divisa di sottotenente, il 1° marzo del 1896, si ritrovò a combattere nella battaglia di Adua, e lì cadde, assieme ad altri 5.000 eroici soldati italiani.
La tragica morte in guerra del figlio Agostino  spinse la madre  alla realizzazione di una grande opera benefica, che doveva portare alla fondazione di un istituto “a sollievo dell’infanzia sofferente”.
Pensò che fosse quella la maniera migliore per onorarne il ricordo, e per questo convinse la famiglia a donare buona parte del parco circostante il Palazzo di Ariccia, oltre a farsi promotrice di una pubblica sottoscrizione nazionale.
Si era arrivati all’Agosto del 1909 quando venne posta la prima pietra dell’edificio.
Prima ancora della sua inaugurazione avvenuta il 18 maggio del 1915, l’intestazione e lo scopo della fondazione erano ben definiti: “Istituto Chirurgico Ortopedico di Ariccia per la cura dei bambini poveri di Roma e Provincia”.
L’ingresso ufficiale dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale impedì in qualche modo  il decollo di quella neonata istituzione. Furono inizialmente undici i pazienti affidati alle cure del primo direttore sanitario, il dott. Giuseppe Melloni, un numero che sicuramente non aumentò granché nei mesi e negli anni immediatamente successivi. Bisognò attendere l’ultimo colpo di cannone della Grande Guerra, e il conseguente armistizio di Villa Giusti, prima di registrare una vera ripresa.
Era soprattutto di una nuova spinta economica che c’era bisogno,e in quel periodo così delicato fu provvidenziale, oltre che ammirevole, l’iniziativa di benefi cenza lanciata dall’allora direttore e amministratore del Giornale d’Italia, Alberto Bergamini .
Attraverso gli appelli del suo quotidiano romano, allora tra le prime quattro testate in campo nazionale, venne organizzata una raccolta di fondi a favore della costruzione di un sanatorio per bambini esposti alla tubercolosi, purché figli di combattenti. Da una parte si riuscì a procurare i soldi, dall’altra c’era un fabbricato già in piedi. La fusione delle due opere sembrò la soluzione più conveniente per tenerle in vita entrambe, e così bastò solo un cambio di intestazione (il primo di una lunga serie): “Istituto Ortopedico e Sanatorio di Ariccia. Tra i benefattori figura re Vittorio Emanuele III, già principe di Napoli.
Negli ambienti interni vi era un ottimo compromesso tra igiene e funzionalità, con locali spaziosi, ben aerati e opportunamente esposti alla luce del sole. Davvero all’avanguardia le attrezzature, tra termosifoni, filtri per l’aria pura, lo stesso ascensore monta-lettighe, rivoluzionario per l’epoca.
I piccoli pazienti cominciarono ad affluire numerosi, senza più la limitazione geografica originaria. C’erano bambini affetti da rachitismo e, soprattutto, da tubercolosi osteoarticolare: per gli uni e per gli altri, le caratteristiche dell’edificio erano ideali per praticare l’elio-climatoterapia, rimedio fondamentale nel prevenire l’instaurarsi di anomalie scheletriche. Il fiore all’occhiello, però, stava nella possibilità di sfruttare al meglio forme più evolute di terapia fisica, come la meccanoterapia, l’elettroterapia, i bagni idroelettrici. Tutto questo si aggiungeva alle comuni cure mediche e a quelle specifiche ortopediche, comprese le chirurgiche. Un secondo cambio di intestazione, subentrato poco tempo dopo, ribadiva il campo d’azione e la nuova paternità: “Istituto Chirurgico Ortopedico e Preventorio del Giornale d’Italia”.
Le porte per la poliomielite si aprirono negli anni 30. L’istituto di Ariccia sembrava ormai destinato all’abbandono se non ci fosse stata questa “provvidenziale” nuova emergenza. La poliomielite divenne in Italia un problema sociale, soprattutto dopo l’epidemia del 1929, tanto che fu il Ministero dell’Interno a farsene carico, cominciando a emanare direttive circa la necessità di una “pronta e larga ospedalizzazione”. In questo programma del governo  rientrò il progetto di utilizzare quell’ospedale infantile ormai impoverito di clienti, con l’obiettivo di creare un centro esclusivamente dedicato alla cura della poliomelite.
Si resero necessarie opere di restauro e di ampliamento; ci si impegnò a lungo per organizzare una assistenza sanitaria all’altezza del nuovo e più impegnativo compito.
Due anni di lavoro e di studi, dal ’35 al ’37, prima che l’ente riprendesse vigore, trovando nel contempo una nuova intestazione: “Istituto Ortopedico Principe di Napoli”, in onore di uno dei suoi più generosi benefattori, sua Maestà Vittorio Emanuele III.
Tra la primavera e l’estate del 1936 accadde un fatto che avrebbe condizionato le vicende future del “Principe di Napoli”, già prossimo alla sua inaugurazione. L’ultima figlia di Benito Mussolini, Anna Maria, venne colpita all’età di 7 anni da una grave forma di poliomielite, esitata poi in una scoliosi paralitica. Così come avvenuto negli USA con il Presidente Roosvelt, il coinvolgimento diretto di Mussolini fu determinante nella lotta in Italia contro la poliomielite, e soprattutto nello sviluppo dell’Istituto di Ariccia.
A parte le sovvenzioni alle quali si è accennato, il governo fascista arrivò a emanare una legge speciale secondo la quale doveva essere lo Stato ad assumersi direttamente ogni onere nel campo della “assistenza e cura degli infermi poveri recuperabili affetti da postumi di PAA”. Una iniziativa sociale di grande valore, che per la nostra nazione costituiva addirittura un primato rispetto a molte altre più evolute. Parlando di “istituti appositamente attrezzati”, veniva indicato il “Principe di Napoli” come una struttura già efficiente, “primo e finora unico istituto specializzato nella detta cura”. La legge porta la data del 10 giugno 1940. Lo stesso giorno, nello stesso Consiglio dei Ministri, veniva decisa l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, con la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia.
Eppure,capitò un episodio che finì col compromettere quelli che sicuramente erano stati fino allora dei buoni rapporti. Il Prof. Spolverini era rigidissimo  nel rispetto della disciplina e del regolamento interno: in particolare lo era per la visita dei parenti, limitata come numero, come durata e anche come spazio, al fine di evitare ogni possibilità di contagio.
Un bel giorno, nel tardo pomeriggio oltre l’orario di visita, si presentò al cancello Mussolini in persona, deciso a entrare per incontrare la figlia. Il portinaio gli disse “No, mi spiace…” e lo pregò di non insistere, perché la legge di Spolverini,in quel luogo, valeva per tutti .Al Duce non restò  che girare i tacchi e tornare da dove era venuto, ma non accettò lo “smacco”: pochi giorni dopo firmò la cartella e portò via la figlia “… contro il parere dei sanitari”!
Se  l’epidemia del 29 aveva in qualche modo  sollecitato la ristrutturazione e il nuovo indirizzo dell’ospedale di Ariccia, quella esplosa esattamente dieci anni dopo (6.000 casi) rappresentò un banco di prova davvero pesante. In quel difficile momento, un altro personaggio nobile scese in campo per portare il suo contributo: era la regina Elena, consorte di colui al quale l’istituto era intitolato, da tutti apprezzata per l’animo sensibile e le  iniziative caritatevoli . Si recò più volte sul posto per rendersi conto delle necessità, e la sua presenza si rivelò utile al pari delle disposizioni di legge che poco dopo sarebbero state prese dal governo.
Decidendo di entrare in guerra, tante cose Mussolini non aveva immaginato, compresa quella che l’ospedale di Ariccia da lui stesso sostenuto venisse sfollato e colpito dai bombardamenti aerei. Lo si dovette ricostruire ancora una volta ! la Struttura organizzativa era solida, e così riuscì presto a far fronte alle nuove richieste: nei primi mesi del ’45 le corsie si riaprirono per ospitare 60 bambini, che rapidamente aumentarono fino a 150. Ogni volta che finiva una guerra si riaccendeva la polio.
Un focolaio epidemico dopo l’altro, fino a quando si giunse nel 58 a quella esplosione dei 10.000 casi che rappresentò una vera calamità nazionale.
Fu proprio negli anni ’50 che l’istituto, ulteriormente ampliato con l’aggiunta di nuove ali all’edificio originario, arrivò al livello più alto di attività. Modello classico di CRP (centro di recupero per poliomielitici), vi venivano accolti bambini dai 14 mesi ai 14 anni provenienti da tutta Italia, soprattutto dal Centro Sud. Le sezioni per i malati  nella fase dei postumi erano tre, a seconda della fascia d’età, ognuna dotata di circa 40 posti letto. C’era anche un reparto di osservazione, dove i nuovi entrati soggiornavano le prime due settimane dal ricovero, poi uno per malati acuti, uno di isolamento, una infermeria chirurgica, un settore per paganti: in tutto, la disponibilità era di 180 posti e più.
A parte l’equipaggiamento tipico di un ospedale ortopedico (sala operatoria, apparecchi di radiologia, sala gessi,officina per presidi ortesici), si poteva disporre di tutto ciò che teneva conto delle esigenze generali del malato. Aerosolterapia e impianto di ionizzazione dell’aria, questo davvero unico nel suo genere, provvedevano in maniera efficace al controllo e alla prevenzione delle complicazioni respiratorie. Nei casi più gravi si mettevano in funzione i cosiddetti letti oscillanti elettrici (la cui azione meccanica portava a un innalzamento del diaframma) o il polmone d’acciaio, macchinario importato dagli USA che  permetteva di mantenere in vita soggetti con insufficienze gravi:
eccellenza il centro di Ariccia era la grande sezione di fisioterapia. C’erano sale e strumenti per ogni forma di cura allora in uso (termoterapia, marconiterapia, vacuumterapia); stanze e lettini per il massaggio; la palestra per la ginnastica generale e per quella segmentaria; percorsi per la rieducazione alla deambulazione utilizzando girelli, stampelle e tutori. Con gli impianti per l’idroterapia, poi, si entrava quasi nel lusso: vasche sagomate (tipiche quelle a tappo di spumante) e vasche per l’idromassaggio; una piscina ben attrezzata per tutti gli esercizi di nuoto, di facilitazione dei movimenti in articolazioni rigide, di cammino lungo guide o sostegni.
Altrettanta attenzione veniva rivolta al recupero sociale, con attività che preparavano l’inserimento del soggetto nella vita civile. Il ricovero dei piccoli pazienti si protraeva per mesi e mesi, per cui la presenza di una scuola primaria diventava una necessità. funzionavano anche tre scuole di addestramento professionale, con laboratori e officine che permettevano di raggiungere un certo grado di autosufficienza e di produttività nel mondo del lavoro. Una sala cinematografica e una cappella facevano sentire meno il problema del lungo isolamento. In tutti questi settori della vita dell’istituto, una presenza costante e attiva era rappresentata dalle suore “Pie Madri della Nigrizia”, che per pura vocazione prestavano la loro opera di assistenza. Le avevamo già incontrate parlando del “Centro Ortopedico e Mutilati V. Putti” di Bologna, impegnate al fianco dei medici e degli aiutanti  Di sanità a lenire le sofferenze dei militari colpiti nella  seconda Guerra Mondiale. Il loro ordine religioso era stato fondato nel 1872 a Montorio Veronese, da monsignor Daniele Comboni, con un preciso scopo missionario in Africa (la Nigrizia, appunto), ma tra guerre, miseria e malattie ci fu bisogno per tanti anni della loro carità anche in Italia. Le suore dalla tonaca bianca, sulla quale spiccava il caratteristico colore rosso dei bottoni e del cordoncino al collo, giunsero ad Ariccia nel 1937, quando l’istituto si era appena indirizzato alla cura della poliomielite. In servizio erano circa cinquanta, nell’arco degli anni se ne avvicendarono più del doppio; avevano compiti diversi, tra i servizi generali (segreteria, economato, guardaroba, mensa), la scuola elementare (c’erano tra loro maestre diplomate) e, soprattutto, le varie attività di cura, alle quali si erano preparate seguendo corsi di specializzazione. Le foto del tempo ce le ripropongono amorevolmente vicine ai loro piccoli pazienti, mentre praticano loro l’elettroterapia o la termoterapia, li massaggiano o mobilizzano le loro rigide articolazioni su un lettino, li guidano al cammino col girello, li sorreggono nei loro movimenti nelle vasche. Non avevano un mansionario al quale fare riferimento o tanto meno appellarsi: faceva vano tutto quello di cui c’era bisogno !
Un aiuto consistente, in questa molteplicità di incarichi, veniva fornito alle suore da un gruppo di giovani lavoratrici, che potremmo oggi inquadrare come personale ausiliario Cuffia bianca in testa, anche loro senza precise limitazioni di compiti, si ritrovavano un po’ in tutte le sezioni e in tutte le fasi della assistenza, contribuendo peraltro a quel ruolo di maternage che rendeva meno pesante ai pazienti l’allontanamento dai loro genitori.
Caratteristica la loro presenza in piscina: immerse in acqua con indumenti impermeabili che li proteggevano fino ai fianchi, queste donne stavano lì per ore a guidare e sostenere i più piccoli e i meno abili nei loro esercizi terapeutici.
Intanto, nel 1964 era scomparsa l’intestazione “Principe di Napoli” e l’ospedale era stato ribattezzato “Istituto Ortopedico Pediatrico Luigi Spolverini, in onore di chi lo aveva rilanciato e diretto per tanto tempo, lui ancora in vita e ormai dedito solo a una attività di sovrintendenza. Era lo stesso anno in cui venne introdotto in Italia il vaccino Sabin. Per smaltire, però, i danni provocati dall’ultima grande ondata epidemica dovette trascorrere ancora un decennio.
L’afflusso dei bambini poliomielitici continuò in maniera consistente negli anni 60, anche perché la  fama dello stabilimento laziale aveva oltrepassato i confini nazionali, e le richieste di assistenza erano cominciate ad affluire numerose anche dai paesi dell’Africa (Eritrea, Somalia, Etiopia, Libia) un tempo nostre colonie.
Ci fu quindi bisogno di allargare gli spazi e di aggiungere nuovi padiglioni. Uno di questi, eretto grazie all’ennesima donazione di un privato, fu interamente adibito a nuovo reparto chirurgico, con sale operatorie più moderne e ambulatori più attrezzati, in grado di soddisfare tutte le esigenze in ambito ortopedico, fisiatrico e pediatrico della popolazione dei Castelli Romani, non solo quelle dei poliomielitici.
Il padiglione venne intitolato all’altro grande artefice dello sviluppo dell’istituto, Giovanni Piantoni.
A quell’epoca tutti i reparti di ortopedia erano affollati da pazienti poliomielitici, anche perché si trattava quasi sempre di ricoveri di lunghi periodi o comunque ripetuti più volte nell’arco degli anni. In certe sedi era necessario creare delle divisioni apposite.  
Gli ultimi ospiti poliomielitici ad abbandonare quelle corsie furono i bambini inviati dalla Libia, in nome della vecchia amicizia che re Idris aveva mantenuto col governo italiano. Fu poi Gheddafi a ritirarli, con la stessa risolutezza con la quale rimandò a casa i nostri connazionali, dopo più di mezzo secolo di loro permanenza a Ripoli, a Bengasi e nelle regioni limitrofe.
Il 1973 segnò un ulteriore svolta. La polio se n’era andata via portando con sé anche i bambini; per la sopravvivenza dell’istituto non restava che mettere le risorse a disposizione di tutti coloro che erano comunque affetti da una patologia invalidante dell’apparato locomotore. Anche perché, chiusa una piaga se ne aprivano altre: l’epidemia dei traumatizzati della strada e del lavoro, per esempio, cominciava a manifestarsi in tutta la sua drammaticità. Naturale, a quel punto, il nuovo cambio di intestazione (siamo arrivati al sesto), che metteva da parte la competenza pediatrica, esaltando piuttosto le opportunità offerte dalle varie forme di terapia fisica: “Istituto Fisiatrico Ortopedico Luigi Spolverini. Con questa duplice vocazione, l’ospedale di Ariccia ha proseguito la sua attività fino ai nostri giorni.

 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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