BRESCIA Dal Convento Ospedale S. Giovanni di Dio (detto del Vanzago) all'Istituto degli infermieri poi Ospedale Sant'Orsola - Ospedali d'Italia

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BRESCIA Dal Convento Ospedale S. Giovanni di Dio (detto del Vanzago) all'Istituto degli infermieri poi Ospedale Sant'Orsola

Ospedali Nord Ovest > Regione Lombardia > Provincia Brescia > Città

Tratto integralmente da: Il Convento Ospedale di S. Orsola in Brescia 1872-1972 – Fra Celestino Mapelli  - 1973

<< Intendo che nel luogo di mia attuale dimora, cioè al Vanzago, sia colla mia sostanza, e colli redditi da essa procedenti, attivato e mantenuto uno Ospitale per la cura degli uomini miserabili oltrepassanti la pubertà, ammalati con febbre curabile. La Direzione dell'andamento dello Spedale ed Amministrazione viene da me demandata alli M. M. R. R. Padri Fate-bene-fratelli, che prego di voler accettare regolandosi in tutto, e da per tutto secondo le norme colle quali con tanto vantaggio dell'umanità viene amministrato l'Ospitale in Milano » con testamento, in data 1° ottobre 1846, l'ex-benedettino D. Ambrogio Cacciamatta invitava i figli di S. Giovanni di Dio ad estendere la loro opera benefica nel Bresciano.
L'I. R. Governo del Lombardo-Veneto, solamente, nel 1850, autorizzò l'apertura dell'Ospedale.  L'inaugurazione del convento-ospedale avvenne il 31 luglio 1850. La conduzione dei Fatebenefratelli dell'Ospedale di Vanzago durò 22 anni.
La legge italiana del 7 luglio 1866 contro le corporazioni religiose colpì anche gli ospitalieri, che poterono continuare per altri sei anni la loro missione sino al 10 marzo 1872, quando si diede corso alla loro espulsione ed alla nomina di cinque membri, designati dai comuni interessati, per l'amministrazione dell'ospedale incamerato dallo Stato.
I religiosi dovettero abbandonare anche il loro convento nei primi giorni del marzo 1873 per ingiunzione del Tribunale Civile di Brescia.
A Vanzago, ormai, i Fatebenefratelli non pensarono più: la loro prima esperienza nel Bresciano era terminata e si apriva il lungo apostolato nel cuore di Brescia, nella casa di S. Orsola e nella filiale dei Pilastroni.
Pietro Riva, nato a Brescia nel 1791, aveva sentito, fin dagli anni giovanili, il richiamo della carità evangelica, prestando gratuitamente la sua opera nell'Ospedale Civile, dove maturò l'idea della nuova istituzione benefica.
Nel 1840, durante uno dei suoi turni di lavoro, s'imbatte in un giovane prete « corroso da tisi polmonare » e poverissimo, ivi ricoverato. Gli scherzi, i disprezzi, la poca cura di quei prezzolati infermieri verso il giovane sacerdote fecero nascere nel Riva il pensiero ed il desiderio di aprire in Brescia una Casa di Ricovero pe' sacerdoti vecchi, impotenti ed infermi nella quale fossero essi dalla cristiana carità generosamente confortati.
I progetti del Riva trovarono benevole accoglienza nel sacerdote D. Angelo Noy. I due, a loro volta, trovarono comprensione nell'arciprete della Cattedrale, mons. Faustino Pinzoni, che nel primo trentennio di quel secolo XIX aveva fondato una specie di pia unione di infermieri, il cui scopo era l'assistenza specialmente di quegli ammalati che per circostanze di famiglia non potevano fruire del beneficio dello Spedale.
Alcuni dei giovani  convivono col Pinzoni nel locale di S. Orsola  e vi vengono  mantenuti, ed altri vivono in seno alle loro famiglie.  L'idea del Pinzoni fu raccolta dal Riva, il quale aprì ai Sacerdoti infermi o impotenti i locali di S. Orsola, comperati, nel 1840. La società del Pinzoni si sciolse verso il 1838.
L'iniziativa del Riva prese l'avvio almeno nel 1842, perché i documenti del 1843 parlano come di una fondazione già consistente.
Il Riva, proprietario dello stabile, tenne per sé l'amministrazione dell'istituzione e affidò la direzione a D. Noy. Essa fu denominata << Istituto degli Infermieri », perché si sosteneva, oltre che sulle offerte di buone persone, soprattutto, sulle prestazioni volontarie di infermieri bresciani.
Nei primi dieci anni di vita, l'Istituto ospitò complessivamente 50 sacerdoti, di cui 20 morti nell'ospizio: in particolare, nel 1852, i sacerdoti ospitati furono dodici, nel 1854, quindici assistiti da cinque infermieri. Una delle più esemplari caratteristiche dell'istituzione fu l'assistenza gratuita prestata dagli infermieri.
Pietro Riva fu il sostegno principale dell'Istituto degli Infermieri, fra Pietro Ghidini fu il mediatore del passaggio della fondazione ai Fatebenefratelli.
L'8 gennaio, a mezzogiorno, avvenne l'incontro nell'Ospizio dei sacerdoti ammalati:
“ Ho inteso che Lei sarebbe venuto a Brescia per cercare  una casa per aprirvi un convento ospedale “ - furono le prime parole del Riva. Alla risposta affermativa di fra Pietro, soggiunse: « Se la mia casa fa per loro, vengano pure anche domani che io gliela cedo tale quale come si trova, cioè con la mobilia. Mi obbligherò anche a dar loro qualche poco di sovvenimento mentre vivo, e, dopo la mia morte, tutto il mio avere lo lascerò alla compagnia, per il mantenimento loro e degli infermi.
Tale fu sempre il mio desiderio, che la mia facoltà venisse impiegata nel fondare i fatebenefratelli a Brescia », e, senza spendere altre parole condusse il Ghidini a visitare la casa e la sua povertà.
Fra Pietro, al termine della visita, pregò il Riva di scrivergli una lettera per il Superiore di Milano, cosa che fu fatta sul momento.
Questo il documento siglato da Pietro Riva, e, per i Fatebenefratelli, dal Provinciale di Milano, P. Elia Nava, al secolo Carlo Nava, il 14 maggio 1871:
« Li sottoscritti, Pietro Riva di Brescia, e Carlo Nava di Milano religioso e Prov.e dei Fatebenefratelli col nome di fra Elía Nava, vengono alle seguenti condizioni:
1. Pietro Riva per sé e suoi eredi cede in uno perpetuo al sig Carlo Nava e i suoi eredi e successori ecc. tutto il locale del l'ex-Monastero di Santa Orsola in Via Santa Croce n. 1617 colla Chiesa e locale ed arte compresi fra il muro delle Salesiane, il vicolo di Sant'Orsola e le case Viani e Calini e si stende dal Bastione alla strada di Santa Croce.
2. Obbliga il suddetto sé e i suoi eredi a fare nel suddetto locale tutti quelli adattamenti, ristauri, aggiunti di infermeria e galleria per convalescenti; e restauri, e adattamenti in Chiesa ed altre già reciprocamente convenuti.
3. Obbliga il suddetto sé e i suoi eredi a dottare il suddetto locale del corredo necessario, mobili, suppellettili ecc. per la Chiesa, per le stanze dei Religiosi, dei sacerdoti, infermi, per la nuova infermeria, soltanto però per 4 cromici laici, per la guardaroba, cucina, dispensa, cantina ecc.
4. Obbliga per ultimo sé e i suoi eredi a pagare anticipatamente al suddetto Carlo Nava, eredi e successori di trimestre in trimestre anticipate lire 3.500 annue in buona moneta accettate sulle piazze di Brescia e a pagare i ristauri e le gravezze pubbliche inerenti a tutti i suddetti locali.
Il Sig. Carlo Nava di ricambio:
1. Obbliga sé e i suoi eredi e successori a ricevere, assistere, curare nel locale indetto, sacerdoti impotenti e cronici ed alcuni laici della città e diocesi di Brescia nel modo numero che permetteranno le rendite e circostanze.
2. Lascerasi sempre riserbato ad uso personale, ma esclusivo del Sig. Riva tutti i locali situati al piano superiore del primo fabbricato vicino alla porta dell'Ospizio; e quelli altresì situati fra la Chiesa ed il vicolo per uso di inquilini fino a che il numero crescente dei sacerdoti e laici non richiederà diversamente.
3. Si pagherà al Sig. Pietro Riva tutto il trattamento di vitto che si userà in famiglia e si lascerà al suddetto tutta la libertà di entrare nei locali comuni occupati dalla famiglia, dai malati, nell'orto ecc. e si avranno tutti i riguardi che alla sua età e carattere di fondatore competano.
4. Si pagherà al suo servo Francesco Damiani una razione di vitto sufficiente anche per la sua moglie consistente in minestra, di pietanza, pane, vino al pranzo, minestra e pietanza, pane e vino alla cena e lire 20 al mese vita sua durante, coll'obbligo di prestare sia lui che la sua moglie gratuitamente quei servizi che si richiederanno.
5. Riserva il Sig. Carlo Nava a sé e suoi eredi e successori piena libertà di ricevere in detto locale anche infermi cronici non Bresciani senza però danno alcuno degli obblighi suddetti;
si riserva di fare quella divisione che crederà opportuna fra i locali degli inquilini e della famiglia, e così pure si dichiara di non poter mai essere obbligato in verun modo ad aprire farmacia pubblica da tenere laureati in medicina e chirurgia, mentre però riservasi il diritto di tenere per uso esclusivo interno una piccola farmacia, e un flebotomo per le piccole medicazioni ed estirpazioni dei denti alla porta.
Per attuare gli accordi, il Riva cominciò i lavori di restauro, completati per la fine di agosto. Il 13 dicembre 1871 i Fatebenefratelli davano inizio alla loro opera.
I religiosi trovarono nell'ospizio quattro sacerdoti infermi accuditi da un vecchio servitore e dislocati in stanze diverse e quindi con gravi manchevolezze nell'assistenza. Primo compito fu di radunare in un solo stanzone quei poveretti e prestare loro tutte le cure.
Al loro arrivo aumentò il numero dei ricoverati e con essi aumentarono i bisogni dell'Istituto, per cui fra Pietro Ghidini dovette, sull'esempio del suo padre fondatore farsi mendicante per i malati. Instancabile, percorse la Valcamonica, la Valtrompia, Valsabbia e la pianura raccogliendo le generosità dei buoni e lasciando la fragranza dei fioretti.
Presentatosi un giorno - racconta la cronaca - al negoziante Luigi Finadri, lo abborda con finta serietà e preoccupazione rilevando la sua brutta cera, il polso non regolare e dicendogli di botto, che ha bisogno sui due piedi di un salasso. Alle proteste del buon uomo che mai si era sentito più in forma e in salute come in quel momento, fra Ghidini, sbottando in una risata, gli spiega che il salasso andava fatto al portafoglio, e subito, perché le necessità dell'Ospedale erano indilazionabili.
Ad un altro commerciante il religioso gli annuncia che deve al fisco il pagamento di una grossa tassa. Ai suoi reclami finalmente con bonarietà ed humour gli rivela che l'esattore era Dio stesso, preoccupato per i suoi figli più bisognosi.
All'inizio del 1900 divennero improrogabili le esigenze di rinnovamento dell'Ospedale per l'usura del tempo e per l'estendersi delle attività ospitaliere: nel 1906, ad esempio, accanto alla casa di cura di S. Orsola, in locali opportunamente rinnovati, vennero installate le cucine economiche, fondate fin dal 1884.
Scoppiata la prima guerra mondiale, con i disagi conseguenti al fatto della vicinanza di Brescia al fronte, la casa fu requisita dall'autorità militare, che la trasformò in ospedale per soldati di truppa, servita dai religiosi, alcuni dei quali richiamati e arruolati nel 3° Corpo di Sanità.
La ripresa dell'attività dei Fatebenefratelli, a guerra finita, nel 1919, fu quanto mai difficile.
Si supplì alle ristrettezze di spazio spingendosi in altezza, costruendo e sopraelevando i piani con stanze a uno, due o più letti, installando un comodo ascensore e aprendo vaste terrazze.
Il reparto chirurgico fu arricchito di due sale operatorie e le sale di medicazione, di disinfezione e di sterilizzazione furono attrezzate con gli strumenti più moderni.
Sull'esempio delle case di Milano e di Gorizia, fu aperto nel 1930 un reparto femminile, adattato nella parte vecchia, e corredato di reparti di medicina, chirurgia, ostetricia e ginecologia.
Sul finire dello stesso anno 1930 fu aperto un reparto di Maternità nettamente autonomo, e completo di ogni attrezzatura, incubatrice, termo-culle, nido per neonati: ad esso accudirono tre ostetriche, presenti, a turno, anche
di notte, infermiere diplomate ed un medico specializzato in ostetricia. Furono impiantati anche i gabinetti di radiologia e di analisi. La ristrutturazione fu tramandata chiaramente da questa memoria:
«L'istituto assume subito le caratteristiche di grande ospedale, che accoglie ammalati di ambo i sessi: le corsie per degenti comuni e le camere ad uno o due letti per pensionati vi sono saggiamente distribuite nei tre piani del grandioso edificio; vi si dispongono due sezioni ben distinte, una maschile ed una femminile, serviti la prima da infermieri laici, e da religiosi della Comunità, la seconda da giovani laiche e da suore. Ogni sezione è fornita di gabinetto da visita e medicazione, da sale operatorie, con antisala preparatoria, con illuminazione sussidiaria per ogni evenienza, e fornite di strumentario in progressivo rinnovamento, secondo richiedano i progressi della scienza e della tecnica, e servite da moderni complessi di anestesia, di rianimazione e di trasfusione ». Pagine, purtroppo, non scritte di carità eroica celebrarono il periodo tragico della seconda guerra mondiale dal 1940 al 1945.
Rimasero però in memoria le opere non celabili dei Fatebenefratelli: la prima fu la creazione di un rifugio sicuro dove << al primo segnale di allarme, in mirabile gara, tutti, frati, suore, medici e infermieri, si prodigarono nel trasporto dei degenti più gravi ed incapaci di muoversi ». La seconda fu l'approvvigionamento e l'ordinamento straordinario per l'ospedale.
Nel 1943, per l'aumentata frequenza delle incursioni aeree, il priore decise lo sfollamento dell'Ospedale a Castegnato, in un'ampia e signorile villa, che attrezzata a tempo di record, accolse tutto il complesso ospedaliero e permise la continuazione della carità. Lo stesso Priore non permise la chiusura della sede cittadina, ma la adattò a rifugio di compromessi politici e di partigiani, per i quali sofferse l'imprigionamento nelle carceri di Brescia.
La pace infuse nuovo vigore all'istituzione e, nel 1968, venne concessa l’approvazione, dalla Sovraintendenza ai Monumenti, e dal Ministero della Sanità  l'elevazione della capacità ospedaliera a 500 letti (il testo ne riporta abbondantemente e dettagliatamente i notevoli interventi).





 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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