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PAVIA Ospedale San Lazzaro

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Tratto integralmente da : L’Ospedale di S. Lazzaro di Pavia – Emilio Nasali Rocca di Corneliano – Estratto dagli atti e memorie del 3° congresso Storico Lombardo del 1938 a Cremona – Giuffrè Editore Milano

L'atto di fondazione risale al 1157 e mostra come  l’ospedale avesse, nell’antico ospedale di S. Pietro al Verzolo, un diretto antecedente. Desumiamo da questo prezioso documento, raro anche per l'antichità, alcune notizie che  permettono di fissare meglio la fisionomia giuridica canonica dell'Ospedale e che ne escludono soprattutto una originaria dipendenza dall'Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme. Esso dimostra come l'ospedale fosse una istituzione locale autonoma derivante da un patronato privato spettante alla nobile famiglia pavese Salimbene, patronato la cui base giuridica consiste nella edificazione della casa (domus) e della chiesa, nonchè nella donazione del terreno annesso. Fin dall'origine e nei documenti esistenti che arrivano a tutto il Cinquecento, l'Ospedale è qualificato come Lebbroseria.
Oltre al Ministro sappiamo che, almeno nel Quattrocento, vi erano due ospedalieri o inservienti.
Per molti secoli il Ministro dell'Ospedale di S. Lazzaro è sempre un Salimbene il quale però, per la gestione diretta dell'ente, nomina quasi sempre un suo rappresentante. Per questa famiglia l'ente ospedaliero era divenuto, con l'andare del tempo, un beneficio ecclesiastico riservato, abbastanza cospicuo perchè costituito da circa tremila pertiche di terra il cui reddito in gran parte era incassato dall'investito. Scarsa e scadente invece era la suppellettile dell'ospedale, come risulta anche dalle visite vescovili pastorali, il cui testo ci è rimasto.
Non risulta che l'ente abbia avuto una vitalità particolarmente importante poichè era privo di frati conversi almeno dopo il Duecento (quando cioè la loro esistenza è affermata negli Statuti) e mancava di una effettiva attività assistenziale e curativa, in quanto non provvedeva più alla cura dei lebbrosi che ormai erano scomparsi quasi dappertutto, dopo il Cinquecento, e neppure alle opere che si erano surrogate ad essa, cioè l'assistenza ai pellegrini, ai poveri, agli invalidi.
Un fatto nuovo intervenuto nel secolo XVI creò per l'Ospedale pavese nuove vicende.
In quel periodo di effimera galvanizzazione dell'antico Ordine gerosolimitano di San Lazzaro, dovuto alla famosa bolla del Papa Pio IV del 1565 (Inter assiduas), tutte le lebbroserie in qualsiasi modo erette o costituite, anche autonome, dovevano o almeno potevano essere erette in commende dell'Ordine.
Questa riforma che alterava tanti interessi locali, ebbe scarse applicazioni concrete in Italia ma sappiamo che la ebbe in Pavia dietro esplicite richieste del patrono Giuseppe Salimbene, al Gran Maestro Giannotto Castiglione che fu ben lieto di accogliere l'offerta dell'Ospedale e di concederne il beneficio ecclesiastico commendale agli stessi Salimbene, disposti a seguire la regola e a ricevere l'abito e la croce dell'Ordine lazzarita, ma decisi anche a conservare il loro giuspatronato.
Estintasi nel 1668 la famiglia Salimbene per successive parentele la commenda passò agli Olevano, ai Della Porta, ai Malaspina, ai Moriggia, ai da Conturbia che ottennero l’affrancazione nel 1854. Cessò in tal modo l'esistenza autonoma di questo ente che divenne proprietà privata e che del resto, già da molti secoli, aveva cessato ogni funzionalità religiosa e ospedaliera.
Lo Statuto dell'anno 1216 riporta norme  rivolte al mantenimento del buon ordine tra i membri dell'istituto, come di solito composto del Minister (o Rettore) dei Conversi (Fratres) o Dedicati e degli infirmi.
Si ricevevano tutti gli infermi di lebbra  maschi e femmine con un congruo apporto di beni se ne possedevano, e con l'impiego che la loro personalità patrimoniale, anche potenziale, si trasferiva de iure all'ente, ciò che corrispondeva ad antichi canoni di diritto ospedaliero.
Erano naturalmente vietati i delitti (sono menzionati il furto, la rapina, l'adulterio, la fornicazione) e il giuoco. Se i colpevoli non si correggevano, dopo le ammonizioni del Rettore della Domus, del Vescovo e dei Patroni, venivano espulsi. Quello che appare più curioso, ma che non è strano in considerazione del tempo, è il fatto che i membri dell'ente, sia i conversi che gli infirmi, dovevano promettere di non compiere delitti.
Era anche vietato agli infermi, di circolare per la città sotto pena della privazione del vitto e alle persone sane di soffermarsi nell'ospedale, ad eccezione delle mogli dei ricoverati. Naturalmente vigeva la più rigorosa separazione dei sessi, sia tra i conversi conviventi nella casa che tra gli infermi. Dovevano partecipare ad una mensa comune seppure separata: i conversi maschi dovevano poi presenziare agli uffici divini.
Anche per la gestione patrimoniale gli Statuti contengono norme importanti in quanto ci dicono esplicitamente che il Minister doveva chiedere la presenza e l'approvazione dei patroni e dei conversi per gli atti amministrativi; compre, vendite, donazioni, permute, investiture. Il minister doveva anche dare i conti delle entrate e delle uscite ai conversi almeno due volte al mese e ai patroni senza un termine fisso, ma ad ogni loro richiesta.
L'ordine delle materie non è bene seguito nel testo poichè le norme amministrative sono mescolate a quelle disciplinari. Così è per quelle che si riferiscono al divieto alle donne converse di recarsi alla chiesa da sole e di andare al forno, all'orto, alla vigna: dovevano essere almeno in due e dovevano attraversare la via pubblica.
Il breve Statuto si conclude ribadendo che è riservata al Vescovo la facoltà della revisione e questo fatto conferma la primaria importanza dell'autorità diocesana in questi enti di carattere fondamentalmente autonomo locale.


 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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