MESSINA Ospedale Piemonte ora Istituto Bonino Pulejo - Ospedali d'Italia

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MESSINA Ospedale Piemonte ora Istituto Bonino Pulejo

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Il contenuto della scheda proviene dal giornale dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Messina “Messina Medica” n.3 del 18/09/2020 a firma del dott. Carmelo Micalizzi – rif. www.omceo.me.it”.
Ringrazio l'Ordine dei medici di Messina per l'autorizzazione e condivisione all’utilizzo del contenuto, invitandovi a prendere visione dell'articolo originale in quanto completo di foto d'epoca oltre alla ricca bibliografia di riferimento.

Ancora tutta macerie, baracche e sgomento, il 15 di febbraio del 1911 Messina visse una giornata memorabile. A poco più di due anni dalla catastrofe del 28 dicembre 1908 il provvidenziale Comitato Piemontese e i sopravvissuti dell’amministrazione del Grande Ospedale Civico consegnavano al Comune i primi padiglioni del nuovo Ospedale battezzato, a memoria dei benefattori, “Piemonte”. I fabbricati furono costruiti nella contrada Carrubbara, su di un pianoro donato dallo Stato alla città terremotata. Nei tre padiglioni vennero trasferite le funzioni sanitarie fino a quel momento svolte in alcune baracche di legno “Docker”, montate, nelle settimane successive al sisma. L’impresa fu possibile grazie al concorso di numerose opere pie, attivate all’indomani della catastrofe; tra queste il Comitato Livornese di Soccorso, il Comitato di Correggio Emilia, il Comitato Messinese per i danneggiati del terremoto del 1905 e il Comitato Centrale di Soccorso che donò il padiglione di maternità. L’opera fu il primo esempio in Italia di moderno impiego del cemento armato in una complessa costruzione pubblica e, per Messina, la prima struttura definitiva che tenne a battesimo la sua rinascita. Il contributo piemontese non si limitò all’esborso finanziario. Il progetto, innovativo nel panorama delle strutture sanitarie del primo decennio del secolo scorso, fu del torinese Pietro Fenoglio, esponente della corrente architettonica del Liberty italiano, e del genovese Riccardo Brayda, titolare della cattedra di Architettura dell’Università di Torino. Per la decorazione della facciata si designò lo scultore Pietro Qua-dri: sue sono le insegne marmoree di Messina e di Torino che dominano la facciata dell’Ospedale. Dall’intento di rappresentare la generosità e l’unità della nazione scaturì la scelta dei due stemmi uniti in una sorta di raffigurazione “a braccetto” con le corone turrite, arcaici emblemi di ambedue le città. L’artista scolpì il vessillo di Messina, croce gialla su sfondo rosso e quello di Torino, toro giallo su sfondo blu, giustapposti alle finiture fitomorfe e ondulatorie tipiche di quella stagione del Liberty. Il design del nuovo Ospedale Civico non assunse tuttavia le estremizzazioni tipiche dell’Art Nouveau: si preferirono tratti sobri nella semplicità funzionale del progetto preliminare e nel rispetto della recente tragedia cittadina. A cinque anni dal disastro, Il 28 dicembre 1913, il prefetto Silvio Buganza inaugurava sobriamente il complesso nosocomiale oramai completo dei sette fabbricati in progetto. Per l’insufficienza dei fondi, tuttavia, oltre le allocazioni per i servizi ausiliari e l’arredamento, si poterono realizzare solo 200 posti letto, la metà dei programmati 400. A ricordo della fondazione vennero murate, due lapidi in marmo grigio che dominano ancora l’androne d’ingresso. Quella di destra scrive: QUESTO EDIFICIO / SACRATO AL SOLLIEVO / DEGLI UMANI DOLORI / PERPETUO ATTESTATO / DI ITALICA FRATERNITA’/ CIMENTATA / NELL’ORA DELLA SVENTURA / I PIEMONTESI / DECRETARONO ERESSERO/ MCMVIII MCMXIII.
La lapide di sinistra riporta: IL FORTE PIEMONTE / ASSERTORE DELL’UNITA’ NAZIONALE / VOLLE / CON QUESTO EDIFICIO / DESTINATO AL SOCCORSO DEGLI INFERMI / AFFERMARE / COI GRANDI IDEALI DELLA SOLIDARIETA’ UMANA / I VINCOLI FRATERNI INDISSOLUBILI / CHE / UNISCONO GLI ITALIANI / E / FANNO SALDA E FORTE LA PATRIA / MESSINA RICONOSCENTE PER INDELEBILE RI-CORDO / ANNO MCMXIII. Alla cerimonia presenziarono i commissari del Comitato Piemontese, gli amministratori dell’antico Grande Ospedale, di cui il nuovo complesso nosocomiale raccoglieva l’eredità, il comitato delle Patronesse, dodici suore dell’Ordine di San Francesco di Paola assistenti degli infermi e i direttori delle Cliniche. L’antico Grande Ospedale di Santa Maria della Pietà, testimone delle vicende della città per oltre tre secoli e mezzo, fu opera degli architetti Andrea Calamech e Antonio Ferramolino. Fondato nel 1542 sul piano di Santa Croce, oggi occupato dal complesso degli edifici del Tribunale, il grandioso fabbricato, ai margini meridionali della città storica, fu un importante tassello della rinascita, oltre che sanitaria anche urbanistica e architettonica, che rinvigorì la città nel suo “secolo d’oro” in seguito al breve soggiorno, nel 1535, dell’imperatore Carlo V. L’antico ospedale raccolse le eredità e le funzioni di ben quindici strutture ospedaliere, tutte legate a istituzioni religiose che, fino ad allora, avevano operato in città. All’impresa presero parte gli architetti Curzio e Francesco Zaccarella, padre e figlio, e gli architetti Giovanni e Nicola Francesco Maffei, anch’essi padre e figlio. A quest’ultimo sono attribuite le due statue marmoree che ornavano l’ingresso raffiguranti la Fede e la Carità; recuperate dopo il sisma, furono posizionate sull’esterno della cappella. L’architrave d’ingresso era segnata dall’epigrafe HIC FIDES PER CHARITATEM OPERATUR, che ribadiva lo spirito di fondazione della monumentale struttura rimandando a un passo degli Atti degli Apostoli (Lettera ai Galati:5,6), dottamente elaborato così da comporre un “anagramma aritmetico puro”. L’austera struttura dell’Ospedale di Santa Maria della Pietà, crollata solo in parte nel sisma del 1908 e definitivamente demolita nel 1912, aveva un Orto Botanico in cui si coltivavano piante rare e medicinali a supporto della Spezieria dell’Ospedale, che vantava una collezione di vasi per farmaci di maiolica veneta del XVI secolo, solo in parte recuperati e oggi esposti presso il Museo Regionale di Messina. Suggestiva è la breve descrizione del Grande Ospedale, fatta nel 1842, da Jeannette Villepreux Power: «All’entrar di Porta Imperiale [vi è, n.d.r.] un vasto, imponente, ma semplice edificio, di figura quadrata. È questo lo Spedale della Pietà, che abbraccia lo Spedale Militare. [Possiede, n.d.r.] due ripartimenti pei cittadini, distinti per sesso, altro per gli espositi, ed in ultimo per le donne di vita lasciva; inoltre un conservatorio detto delle Trovatelle, una galleria destinata al congresso dei così detti Tesorieri, ed un piccolo giardino con alquante piante medicinali. Nella chiesa dello stesso titolo, il quadro della Pietà è opera di Barbalonga. In essa vedasi innalzato un cenotafio di marmo alla memoria di Tommaso Bonfiglio, rinomato e per la sua dottrina nel governo civile e pel suo valore nell’arte della guerra». Nell’ultimi anni del XIX secolo il Grande Ospedale ereditò il patrimonio del sacerdote Federico Spadaro Giarrizzo dell’ordine dei Cistercensi, deceduto durante l’epidemia di colera del 1884. Con tali fondi fu possibile strutturare un nuovo organico: quattro amministratori, quattro primi medici, quattro secondi medici, tre primi chirurghi, quattro secondi chirurghi, due chirurghi di “Sifilocomio”, un farmacista. Vennero intrapresi lavori di ristrutturazione per il miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie. Alcuni ambienti del vasto impianto vennero utilizzati come sede della Caserma dei Pompieri. Si modificarono le finestre del primo piano in porte, si allargarono le finestre del terzo piano e si organizzarono, infine, adeguati spazi per il reparto di clinica ostetrico-ginecologica. «I lavori si completa-rono nei primi giorni del mese di dicembre dell’anno 1908; il 21 dello stesso mese si inaugurarono solennemente i nuovi reparti. A causa della notorietà dei suoi medici, dei suoi quattrocento posti letto e degli ottimi servizi, L’Ospedale Civico ritornò, anche se per pochi giorni, ad essere punto di riferimento di tutti i Comuni della provincia e della vicina Calabria. Ma per un beffardo, atroce scherzo del de-stino, la ristrutturazione clinica non funzionò per molto; sette giorni dopo, il catastrofico terremoto del 28 dicembre 1908 suggellò la messinese consapevolezza della più grave perdita della sua storia. Delle ultime, tormentate vestigia del solenne complesso, rimasero incolumi solo i locali dei quattro angoli che, pericolanti, furono abbattuti e oltre trecento persone tra ricoverati, funzionari suore e sanitari, trovarono la morte». Nel V anniversario del terremoto, al nuovo Ospedale Civico di contrada Carrubbara, la «Domenica del Corriere» dedicava un articolo celebrativo corredato da alcune immagini. Le sale del nuovo ospedale si rivelarono ben presto insufficienti sia nel far fronte alle pressanti domande di ricoveri dalla città e dalla provincia, come nel provvedere adeguatamente all’insegnamento delle discipline mediche. Nel 1917, di fronte alla volontà della città di dare impulso alla Facoltà di Medicina, il Ministero dell’Istruzione aveva autorizzato ad adibire i locali in legno del Grande hotel Regina Elena, costruito dagli americani nel quartiere “Lombardo”, ad ospedale. «Era sorto così, finanziato dal comune e dalla provincia, l’Ospedale Clinico Consorziale capace di ricoverare sino a 200 degenti. In esso erano confluite le strutture e gli operatori del Regina Margherita, ormai finanziariamente allo stremo. Nel 1923 una legge finalizzata alla riorganizzazione del sistema sanitario e al suo controllo da parte del Prefetto, poneva in mora l’Ospedale Clinico Consorziale che veniva chiuso non presentando i requisiti minimi d’igiene. Ciò gettava nel panico l’Università che si vedeva impossibilitata a svolgere i corsi dell’ultimo biennio di medicina. Una lunga trattativa aperta con l’ospedale Piemonte portò alla stipula di un accordo di “ospitalità”. Accordo non facile per le acrimonie e le rivalità esistenti tra le varie figure della classe medica, professori universitari e clinici ospeda-lieri». Un ampio capitolo dedicato all’Ospedale Piemonte a venti anni dalla fondazione venne pubblicato in Messina prima e dopo il disastro, edito da Giuseppe Principato. Nel saggio se ne ribadivano le caratteristiche architettoniche e funzionali: «La struttura intrinseca delle costruzioni è di cemento armato con pareti esterne pure in cemento ed in muratura legata con ferro all’interno. Tutto venne calcolato ed eseguito in modo che si possano avere le maggiori garanzie di solidità e le maggiori comodità pratiche ed igieniche inerenti ad un moderno Ospedale. L’aria e la luce vi penetrano abbondantemente da finestroni, e fu provveduto pure alla ventilazione dei pavimenti col porre a livello dei medesimi finestrelle munite di serrande apribili. La decorazione esterna delle varie costruzioni è pure in cemento, fatta con semplicità. Può definirsi uno stile barocco moderno, assai libero, ma molto elegante. La stabilità è poi tale da resistere alle più potenti scosse, essendo ormai provato che qualun-que avvallamento del sottosuolo potrà magari deformare e rendere inservibile una parte dell’edificio, ma non fare mai vittime umane come sciaguratamente avvenne nel vecchio ospedale. È importante affermare che per l’ubicazione delle fabbriche attuali, per la disposizione degli ambienti, per la salubrità del sito, e per il comodo d’ogni servizio, il nuovo ospedale non ha nulla da invidiare ai più reputati stabilimenti congeneri». L’espansione demografica e il potenziato assetto urbanistico di Messina, già nel secondo decennio del ‘900, andavano di pari passo alla necessità di una maggiore assistenza sanitaria. Pressava intanto, per una certa conflittualità tra i clinici e i docenti e per gli spazi oramai insufficienti, la complessa questione delle Cliniche e dell’insegnamento delle materie mediche struttu-rate nelle aule del “Piemonte” secondo i canoni delle discipline universitarie varate negli anni ’30. Le restanti strutture universitarie erano ospitate presso gli edifici di piazza XX Settembre, in via Orto Botanico – oggi via Pietro Castelli – e in via Tommaso Cannizzaro. Trascorse ancora un trentennio per-ché le Cliniche potessero iniziare a trovare agio e adeguati spazi nel nuovo Policlinico Universitario, intitolato a Gaetano Martino, e altri quattro lustri, fino agli anni ’80, perché le Cattedre venissero definitivamente trasferite dalle vetuste aule del “Piemonte” al vasto complesso funzionale di viale Gazzi. Celebrandosi la secolare fondazione, nel febbraio 2012 è stato pubblicato un esaustivo volume curato da Nino Principato: L’Ospedale “Piemonte” (1911 – 2011). Nell’imminente ricorrenza dei centodieci anni della più antica struttura ospedaliera cittadina, erede dell’antico Grande Ospedale Civico di Santa Maria della Pietà, si coglie l’occasione per soffermarsi ancora sull’argomento e, possibilmente, aprire nuovi spazi su di un’importante pagina della Storia recente della medicina peloritana del Novecento, per alcuni aspetti non ancora adeguatamente valutata; un tempo che si articola dal XIX secolo, il secolo “lungo” che per Messina si conclude con la violenta cesura del sisma, fino ai nostri giorni: storia di eventi, di clinici e docenti che hanno animato la recente Sanità della città dello Stretto. Una nota, infine. Chi osserva le antiche cartoline postali che riprendono l’ospedale “Piemonte” noterà il muro che cinge il complesso dei fabbricati articolandosi lungo il viale Europa e le vie Reitano Spatafora, Piave e Carrubbara. Tale è rimasto il muro dalla sua costruzione a oggi, ma ciò che più lo caratterizza è di essere stato eretto con macerie del terremoto: se ne distinguono ancora i frammenti, capitelli in pietra levigati dal tempo e dalle intemperie (molti sono stati depredati), tratti di cornici di marmo, conci con iscrizioni monche, relitti di architravi, di trabeazioni e reggimensole in pietra arenaria, reliquie di Messina svanita. Di tale muro qualcuno continua a percepire il fascino. Non bello, alto quanto basta per delimitare l’ospedale, di aspetto precario, ma solido e discreto che, con il tempo, è finito per essere guardato come una sorta di monumento. C’è chi ha elaborato questa suggestione dedicandovi una poesia: “Non chiamatelo muro” è il titolo dato da Filippo Faillaci a un suo componimento di 170 versi dedicato alla muraglia dell’Ospedale “Piemonte”, inserito da Aldo Di Blasi e pubblicato nel 2009, nella rivista di cultura peloritana «Messenion d’Oro», a cura di Giovanni Molonia. La città di Messina non ha mai promosso iniziative per l’erezione di un monumento al terremoto, alle sue vittime, alla città dissolta; un simbolo, statuario o architettonico, in pietra o marmo, in metallo, anche in cemento, essenziale per un saldo compendio della memoria; una traccia che segnasse una piazza, un angolo di viale, un giardino; un emblema per ritessere, per quanto possibile, la trama della messinesità e delle sue radici. In tale silenzio e assenza, il “muro” dell’ospedale Piemonte resta l’unico monumento al terremoto del 1908.




 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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