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NAPOLI Psichiatrico Leonardo Bianchi

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Questa scheda deriva dal SIUSA e da CARTE DA LEGARE
Il Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche, noto con l'acronimo SIUSA, si propone come punto di accesso primario per la consultazione e la ricerca del patrimonio archivistico non statale, pubblico e privato, conservato al di fuori degli Archivi di Stato.
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Carte da legare  http://www.cartedalegare.san.beniculturali.it/ ; è un progetto della Direzione generale archivi del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo nato per proporre una visione organica di tutela del patrimonio archivistico di queste istituzioni. Partito nel 1999 con un primo programma di finanziamento per i complessi archivistici degli ospedali Santa Maria della Pietà di Roma e Leonardo Bianchi di Napoli. Il portale mette a disposizione della comunità i risultati . Essi possono essere utilizzati per scopi di studio e ricerca da parte degli addetti ai lavori e per la semplice conoscenza del fenomeno manicomiale da parte di un pubblico più vasto.
Sono liberamente consultabili i dati del censimento degli archivi, alcuni strumenti di ricerca e le statistiche dei dati socio-sanitari ricavati dalle cartelle cliniche. La consultazione dei dati specifici delle singole cartelle cliniche avviene, invece, dietro autorizzazione, nel rispetto della normativa sulla privacy.
Carte da legare costituisce anche un percorso tematico specifico del SIUSA (Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche).

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Tra il 1883 e l’inizio del 1884 si fece pressante l’idea di dotare la città di Napoli di un manicomio modello a padiglioni staccati. Nel 1890 la commissione tecnica, deputata ad esaminare i progetti, dichiarò vincitore l’ing. Giuseppe Tango, approvando una spesa di £. 2.400.000. Al progetto furono apportate delle modifiche, richieste contestualmente all’ing. Dini e all’ufficio tecnico. L’appalto dei lavori in un primo momento fu affidato dall’amministrazione provinciale allo stesso Dini e, in seguito, all’ing. Migliaccio. Le pratiche per l’acquisto e l’occupazione dei terreni a Capodichino furono definite nel marzo 1897, ma i lavori iniziarono solo verso la fine del 1897, trascinandosi per anni tra interruzioni, incidenti gravi, problemi finanziari e sospetti tentativi di corruzione, a fronte di urgenti problematiche connesse ad un costante e progressivo aumento dei ricoverati. Difatti, nel 1899 si registravano 922 pazienti di cui 542 maschi e 380 femmine.
L’occupazione del manicomio di Capodichino cominciò solo nel 1909 e si completò un anno dopo, quando il numero dei folli era salito a 1128.
Nel 1927 l’amministrazione provinciale deliberò di intitolare la struttura denominata fino ad allora «Manicomio di Capodichino» a Leonardo Bianchi, che l’aveva fortemente voluta. Il manicomio traduceva nella pratica un modello istituzionale delineato dalla legge del 1904, di cui lo stesso Bianchi era stato relatore in Parlamento. Nel 1930, durante la direzione Sciuti, erano ricoverati 1609 infermi, 939 uomini e 670 donne. In questi anni ai 29 padiglioni iniziali ne furono aggiunti altri quattro da adibire alle lavorazioni, alla cabina elettrica e al frigorifero. Inoltre, l’amministrazione provinciale aveva deliberato l’esproprio dei terreni intorno all’ospedale preventivando una futura espansione dell’istituto attraverso la costruzione di altri padiglioni e per assicurare una forma di isolamento rispetto alle strutture abitative della città. In soli venti anni il nuovo manicomio si era dotato di una biblioteca scientifica, che ammontava a circa 8000 volumi, 2000 opuscoli, oltre ai periodici scientifici, di una biblioteca per i folli, di una tipografia e di una legatoria dove lavoravano anche i ricoverati; erano stati impiantati gabinetti per le ricerche di bromatologia, chimica clinica, anatomia patologica e sierologica. La direzione di Michele Sciuti, oltre ad apportare miglioramenti alla struttura edilizia, fu caratterizzata da un impegno costante di carattere terapeutico, seguendo quelle terapie che la scienza psichiatrica dell’epoca riteneva foriere di risultati ottimali. Nel 1931 Sciuti affermava: «una delle mie principali preoccupazioni è stata quella di fornire l’Istituto di officine e di laboratori per impiegare il maggior numero possibile di ammalati al lavoro»
I folli lavoravano nella calzoleria, in un laboratorio per lo sparto e la saggina, nella tipografia e legatoria, in un fabbrica di mattonelle, nella falegnameria, in un officina meccanica, nella sartoria e tessitoria, nella panetteria e, infine, nella colonia agricola. Erano seguiti e guidati nel lavoro da un tecnico ed erano retribuiti secondo parametri specifici sia con denaro che con tabacco.
Se la vicenda descritta dallo Sciuti sembra seguire un percorso abbastanza lineare verso un miglioramento indiscutibile dei servizi e delle potenzialità dell’istituto, la realtà fu certamente più complessa e non scevra da problemi, dei quali quello certamente più pressante fu, fino all’ultimo ampliamento della struttura completato negli anni Cinquanta, l’affollamento dei pazienti. Fin dal 1914, infatti, il direttore Colucci non aveva mancato di far presente alla Provincia la necessità di dar luogo alla sopraelevazione della IV e VI sezione uomini, nonché della IV sezione donne, al fine evidente di incrementare le potenzialità di accoglienza di un numero in crescita esponenziale di ricoverati. Il mancato impegno della Provincia in questo senso determinò gravi disagi ai pazienti con inevitabili ricadute sulla funzionalità dei servizi e seri problemi di gestione del personale. Fu solo nel 1922 che la Provincia si decise a sfollare l’ospedale di circa 200 ricoverati, inviati nei manicomi di Aversa e Nocera, scelti secondo i criteri stabiliti dal Consiglio sanitario dell’ospedale appositamente convocato dal Colucci nel luglio di quell’anno.
Una delle proposte avanzate durante la discussione fu quella di trasferire in blocco tutti i folli appartenenti alle altre province, che sembrava rispondere anche a ragioni umanitarie, dal momento che i folli venivano in tal modo avvicinati alle famiglie.
Ma il prof. Sciuti e il direttore non mancarono di far osservare che se era opportuno tener conto di tali ragioni nella selezione dei pazienti da sfollare, esse non potevano essere le uniche, poiché l’univocità di quel criterio avrebbe comportato seri problemi per le ritorsioni che avrebbero potuto attivare altri manicomi col respingere i malati a carico della provincia di Napoli. Sciuti, in particolare, non mancò di sottolineare che «a causa dell’emigrazione esiste un numero superiore di folli nativi di Napoli di quelli di altre province»; inoltre, poiché alla Provincia che ordinava il trasferimento spettavano i costi delle operazioni, l’amministrazione provinciale napoletana avrebbe dovuto sostenere una spesa notevole. Il direttore Colucci, per sua parte, oltre a condividere le opinioni dello Sciuti, non mancò di far notare che tale criterio avrebbe comportato la lentezza di tutte le operazioni relative all’accompagnamento dei folli in posti lontani, con grave ammanco di infermieri. Non solo: paventava, tra l’altro, «la certezza di contestazioni in quanto i domicili di soccorso» potevano «non essere quelli originari e quindi la conseguenza di pratiche per il ritorno dei folli e possibili liti giudiziarie». I criteri, in definitiva, potevano essere individuati soltanto in base a motivazioni sanitarie, di sicurezza e di spazi.
Con deliberazione provinciale, dunque, del 31 luglio 1922 venne approvata la convenzione con i manicomi di Nocera, disponibile ad accogliere un numero di folli da 90 a 110, e Aversa, disponibile ad accoglierne da 100 a 130, per una diaria giornaliera di nove lire e cinquanta centesimi. Era impegno dell’amministrazione napoletana non inviare pazienti «criminali prosciolti, luridi o laceratori».
Probabilmente furono proprio queste circostanze a far sì che si desse corso all’ampliamento di alcuni padiglioni, entrati in funzione all’inizio degli anni Trenta.
Ciononostante, il problema non venne risolto a causa dell’incremento costante delle ammissioni. Tra 1936 e 1937 Sciuti chiedeva il trasferimento di circa 500 pazienti in altri manicomi, denunciando un numero di ricoveri superiore alle 2.000 unità a fronte di spazi insufficienti. La situazione venne affrontata in termini seri proprio a partire dal maggio 1937, quando la Prefettura comunicò la necessità espressa dal Ministero della Guerra di sfollare dalle città capoluogo di provincia i ricoverati dagli ospedali, dai manicomi e dalle colonie infantili permanenti ai fini della protezione antiaerea in caso di guerra. Venne preparato un progetto dettagliato di sfollamento, con il trasferimento di numerosi pazienti in altre strutture psichiatriche e di reperimento e ristrutturazione di altri edifici nei dintorni di Napoli. Complessivamente tra 1937 e 1943 furono trasferiti 717 uomini e 766 donne.
Lo scoppio della guerra, tuttavia, determinò un periodo estremamente duro e difficile, poiché la riduzione di personale sanitario e di assistenza chiamato alle armi, la riduzione di generi alimentari e di medicinali determinò notevoli difficoltà terapeutiche e gravissimi disagi ai degenti ricoverati. Difatti, ad onta della segnaletica convenzionale internazionale di protezione, la struttura ebbe a soffrire delle frequentissime incursioni aeree nemiche. Si ha notizia di alcuni padiglioni quasi distrutti dai mitragliamenti aerei. Particolarmente grave fu il bombardamento del 30 maggio 1943. L’8 ottobre 1943 le truppe anglo-americane penetravano nell’ospedale occupando il padiglione Principe di Piemonte. Poco sappiamo sulle vicende legate al periodo della ricostruzione postbellica. Certamente l’ospedale usufruì degli aiuti provenienti dal piano Marshall. Nel 1946 era già in corso la riparazione e ristrutturazione di tutti gli edifici danneggiati dalla guerra. Nel corso anni Cinquanta la documentazione lascia intravedere una situazione di sostanziale tranquillità, con l’entrata in funzione di un ulteriore padiglione - la IX sezione uomini - e un consolidato ripristino della funzionalità medico-sanitaria.
Le dimensioni assunte dall’ospedale in quel periodo, erano quelle che tuttora conserva.  In essa erano distribuiti 33 edifici riuniti insieme da ampi passaggi coperti di dimensioni e di epoche diverse.
A partire dagli anni Cinquanta le situazioni di eccessivo sovraffollamento si poterono evitare grazie alla presenza di quattro cliniche psichiatriche private, al sorgere in città di altri istituti psichiatrici pubblici, quali le cliniche neuropsichiatriche del reparto neurologico dell’ospedale Cardarelli, del reparto neuropsichiatrico dell’ospedale S. Gennaro e del reparto neurochirurgico dell’ospedale Loreto Nuovo.
Alla sistemazione raggiunta dal Bianchi poc’anzi descritta, il cui mantenimento comportò un non lieve impegno di spesa per la Provincia, si accompagnò anche la dotazione di attrezzature scientifiche moderne, particolarmente per quel che concerne il reparto operatorio, il gabinetto di terapia fisica, il laboratorio micrografico e chimico, i laboratori di antropologia, psicologia, elettroencefalografia, elettroshockterapia.
Erano presenti sezioni di osservazione e di cure attive per acuti cronici, sezioni geriatriche, infermerie per malattie acute ed infettive, reparti di isolamento per contagiosi; reparti di ergoterapie, ludoterapie e terapia di ambiente. Nel 1962 è testimoniata la presenza di un pronto soccorso per rilevare esternamente ammalati bisognevoli di ricovero, nonché un servizio di selezione in istituti di neuropsichiatria infantile o in esternati sotto forma di asili scuola. L’ambulatorio, inoltre, provvedeva a un servizio di assistenza parkinsoniani. I servizi di oculistica, dermatologia, cardiologia, otorinolaringoiatria, ginecologia, chirurgia e anestesia erano affidati a consulenze esterne, per le quali l’amministrazione provinciale provvedeva direttamente a stipulare specifiche convenzioni pluriennali con noti specialisti presenti in città.
Un importante servizio convenzionato, stipulato dall’amministrazione provinciale, fu quello riservato all’assistenza psichiatrica per i minorenni. In verità, nel 1924, nel Bianchi era stato istituito una padiglione per bambini deficienti ed anormali ove furono inviati «parecchie decine di infermi, con una media giornaliera di una trentina di uomini, mentre le donne vennero inviate in una sezione insieme a dementi tranquille». L’affollamento dell’istituto, però, rese necessario destinare quei locali ai pazienti adulti, mentre i minorenni vennero inizialmente inviati al sanatorio per bambini «Pausilipon» o all’istituto ortofrenico del prof. Giuseppe Tropeano, fondato nel 1918.
Il 13 agosto 1926, la Provincia provvide ad acquistare la proprietà Araneo, alla discesa Marechiaro, ed il successivo 26 agosto, col parere favorevole della Giunta provinciale amministrativa, veniva stipulata una specifica convenzione con il prof. Tropeano, al quale veniva affidata la gestione della struttura, destinata al ricovero di 30 bambini frenastenici. L’Istituto veniva intitolato «Amministrazione provinciale di Napoli – Internato per anormali» e, per quanto riguarda il suo funzionamento, equiparato agli istituti di cui all’art. 6 del Regolamento sui manicomi ed alienati del 1909. L’ammissione era subordinata al parere preventivo della direzione del manicomio provinciale.
Altra convenzione veniva stipulata il 6 novembre 1937 con l’istituto Vertecoeli, il quale gestiva un istituto ortofrenico in virtù di deliberazione provinciale del 16 ottobre 1934, con la quale l’amministrazione per ragioni sanitarie e per convenienza finanziaria aveva trovato opportuno far ricoverare i ragazzi che in passato erano ricoverati presso l’ospedale psichiatrico.
Anche in questo caso l’ammissione era subordinata ala parere preventivo della direzione del manicomio provinciale.
Infine, nel 1963, a titolo sperimentale, la Provincia istituiva il Centro di Orientamento ed Addestramento Professionale per i Minori Sub-normali, allo scopo dichiarato di mettere i ragazzi in condizione di essere «accettati dalla società» e di inserirli «nel normale ciclo produttivo», agendo sulla loro personalità mediante le più recenti e consolidate acquisizioni della pedopsichiatria, della psicologia dinamica e della sociologia.
Il Centro venne poi definitivamente organizzato con un regolamento validato da una serie di deliberazioni successive a partire dal 29 luglio 1969 n. 754, con provvedimento finale licenziato il 30 luglio 1973 n. 332094.
Non si può non far menzione in questa sede della scuola attivata presso l’ospedale, ispirata ai criteri generali dettati dall’art. 24 del r.d. 18 agosto 1909 n. 615, della quale disponiamo attualmente documentazione a partire dal 1920. Si trattava di corsi periodici di formazione della durata di sei mesi e, sembra, prevalentemente destinata a personale interno. Al termine del corso, che non venne peraltro mai specificamente regolamentato, era previsto lo svolgimento di regolari esami a carattere teorico-pratico dinanzi ad una commissione presieduta dal Medico
provinciale e dall’Assessore provinciale col carico del manicomio. La scuola venne sostituita, con decreto del presidente della Regione Campania del 4 febbraio 1977 n. 350, in attuazione della legge statale del 10 agosto 1976 n. 555, dall’istituzione della Scuola paramedici per infermieri generici psichiatrici e per infermieri professionali, finanziati dalla Regione con contributi europei. Gli allievi percepivano un contributo di £. 6.180 per ogni giorno di effettiva presenza nonché la dotazione di indumenti e materiali didattici. Il manicomio tra alterne vicende ha continuato la sua funzione fino ai giorni nostri. Nel 1981 vi erano ricoverati ancora 1459 pazienti, dei quali 698 uomini e 761 donne. Inoltre, nonostante la legge 180, l’attività della struttura psichiatrica Leonardo Bianchi non è cessata nei termini previsti. Difatti, a partire dall’approvazione della legge regionale n. 1/1983 è iniziata la difficile e complessa operazione delle dismissioni dell’ente. Ma questa è altra storia.

 
Dal passato al futuro... un viaggio nel tempo dei templi della salute
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